Gli atleti di Mussolini che unirono l’Italia
Un saggio sul fascismo che inventò lo sport come strumento di consenso e successo. Copiato nel mondo.
A ucciderlo fu lo sport, che era la sua malattia e la sua condanna. E un’imprevedibile ingenuità. Anche quella mattina di fine aprile e di fine guerra stava facendo quello che ora si chiama footing: aveva quasi sessant’anni, teneva alla forma come uno di oggi. «Starace, dove va?», gli chiese uno vedendolo così di corsa. «Vado a prendere un caffè…», rispose cadendo nel tranello. Mussolini non lo poteva più vedere, non contava niente da anni, viveva da povero cristo in un appartamentino di Milano, a spese della figlia. Il caffè restò il suo ultimo desiderio. I partigiani lo appesero a Piazzale Loreto con la tuta addosso dopo averlo consegnato alla gogna per le strade della città. Morì da uomo, lui che era considerato una macchietta del regime, facendo il saluto romano al Duce appeso a testa in giù.
Achille Starace, nel saggio di Enrico Landoni Gli atleti del Duce. La politica sportiva del fascismo (Mimesis) smette di essere la caricatura che la storiografia gli ha appiccicato addosso, per diventare il punto d’arrivo di una rivoluzione sportiva cominciata vent’anni prima, un uomo arrivato dal futuro che disegna lo sport italiano, lo reinventa nei media, con il cinema e la radio, lo fa ieri quello che è oggi.Perché lo sport con il fascismo segna il confine, fisico prima che ideologico, con il mondo di prima, è la discontinuità della politica, lo spartiacque che inventa un popolo diverso per sempre. È sui campi da gioco, non sulle piazze o nelle aule parlamentari, che i socialisti, i popolari, il vecchio ordine liberale cominciano a perdere la partita, consegnando lo sport, il nuovo che avanza, nelle braccia del fascismo che ne farà la propria identità e lo sposerà ai nuovi mezzi di diffusione di massa, la radio, il cinema, lo storytelling giornalistico, nuove frontiere che il fascismo supera per primo e poi rende funzionali alla Causa.
L’italiano diventa fascista con lo sport e sportivo con il fascismo. Il Duce a torso nudo sugli sci o in maniche di camicia al volante di un’Alfa da corsa è figlio della propaganda e del calcolo, la prestanza fisica dell’uomo che sintetizza l’energia dell’azione politica, perché Mussolini, nato e cresciuto socialista, nella realtà sportivo non era per niente, ma nello sport vide il futuro, uno stile di vita che rompeva con il passato, una forma politica di governo. Lo sport è per il regime un progetto ambizioso, innovativo, di ampio respiro, una macchina da guerra organizzata per produrre risultati, studiata e invidiata in tutto il mondo. Nascono impianti sportivi, la medicina sportiva, l’Istituto superiore di educazione fisica, ma anche la serie A, la Mille Miglia, la radiocronaca sportiva, la prima scuola di volo acrobatico, madre delle Frecce Tricolori. Il campione dello sport comincia a spostare le masse, esce dalla semplice vittoria per diventare mito, motivo di vanto per le Nazioni. Come Alfredo Binda, decimo di quattordici figli, che è un bambino che prende schiaffi quando sale in sella all’unica bicicletta di famiglia. In casa sono tutti suonatori e a lui tocca la tromba. Si fa conoscere perché va forte dappertutto, diventa campione su un libretto che gli raccomanda di non guardare le donne. E lui obbedirà. Il suo doping sono le uova: ne mangia ventotto e fa suo il Giro di Lombardia in fuga per 170 chilometri. Vince cinque Giri d’Italia e tre mondiali, ma la sua vittoria più grande sono le 22.500 lire che gli danno per non correre il Giro. Nessuno è mai stato pagato per restare a casa.
Oppure Tazio Nuvolari, l’omino immenso di Mantova, ricchissimo di famiglia. Coltiva l’amicizia con i gerarchi che gli garantiscono ingaggi da nababbo, frequenta le raffinate sartorie londinesi e gli artigiani calzaturieri di Piccadilly Circus, guida con una maglietta gialla e la tartaruga d’oro sul cuore che gli regala D’Annunzio: «All’uomo più veloce, l’animale più lento». I tedeschi lo chiamano Der Teufel, il diavolo. Aveva avuto due carriere: una in moto e una in auto e nessuno ha ancora capito dove fosse più bravo. Vince una Mille Miglia guidando a fari spenti nella notte, un’altra volta arriva primo con il volante staccato in una mano. Se lui è il sole, Varzi – il suo nemico – è la luna. Ama la notte, la velocità, le belle donne e la dolce vita. Al contrario di Tazio detesta le adunate e alle celebrazioni preferisce le partite a poker accompagnate dallo champagne. È spericolato solo nella vita, perché in pista è un computer. All’inizio evita Nuvolari e Nuvolari evita lui, poi si combattono su ogni curva del mondo, sfidandosi anche in eleganza. Si innamora della moglie di un compagno di scuderia, bellissima e biondissima, ma schiava della droga che tira dentro anche lui nella sua rovina. Lo salva la guerra che li allontana, muore nel Gp di Svizzera, ultraquarantenne. Aveva appena fatto pace con il compagno di scuderia tradito.
L’Italia del Duce è l’Italia del calcio che vince due mondiali e un’Olimpiade, è Luigi Beccali, quarto figlio di un ferroviere, che costruisce strade per il Comune di Milano, che fa oro e record del mondo a Los Angeles nel mezzofondo, che i giornali americani definiscono «il miglior ambasciatore di Mussolini», è la bolognese Trebisonda Valla, detta Ondina, la Pellegrini del Ventennio, una stangona per l’epoca, uno e settantatré, che si carica con una zolletta di zucchero bagnata al cognac, vince gli ostacoli ai Giochi di Hitler, che la convoca per conoscerla, e un premio personale del Duce di 5mila lire. Il prefetto di Bologna fa trasferire il proprio segretario perché al ritorno da Berlino le fa trovare un mazzo di fiori un po’ mosci. Ma è soprattutto Primo Carnera, tenero e terribile, un bambino prigioniero nel corpo di un gigante, che diventa il simbolo della definitiva transizione al campionismo dello sport, il personaggio star che conquista lo show business americano, ed esalta il prestigio del fascismo. The Walking Mountain è il primo a vincere un mondiale di pugilato, nell’anno in cui Italo Balbo trasvola l’oceano, il momento di massimo successo diplomatico, di consenso e di immagine dell’intero Ventennio. Carnera finisce per essere anche la metafora di quel patrimonio di fama, credibilità e risultati conquistati giorno per giorno, sbriciolato dalla guerra e dalle leggi razziali. Come un colosso d’argilla.
Massimo M. Veronese, IL GIORNALE, 15 gennaio 2017