Il controverso atteggiamento della comunità internazionale e dell’Onu nei confronti dello stato ebraico: l’analisi di Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera.

Sono un indefettibile sostenitore della soluzione, in Medio Oriente, dei due Stati. E continuo a pensare che tale soluzione, per quanto debole, trascurata dagli uni e rifiutata dagli altri, sia l’unica che, a termine, consentirà a Israele di continuare ad essere lo Stato degli ebrei voluto dai suoi pionieri e al tempo stesso la democrazia esemplare di cui settant’anni di guerra aperta o larvata non hanno scalfito né lo spirito né le istituzioni. Sono stato tuttavia profondamente colpito dalla confusione che si è creata, a Natale, sul voto dell’ormai famosa Risoluzione 2334 che esige la «cessazione immediata» della «colonizzazione» nei territori palestinesi occupati. Innanzitutto c’è il luogo: l’assemblea dell’Onu che da decenni continua a condannare, demonizzare, ostracizzare Israele e che rappresenta uno degli ultimi luoghi al mondo dove si possa sperare, su questo problema come su altri, sia presa una posizione equilibrata o coraggiosa.

C’era lo spettacolo di quelle quindici mani incapaci di alzarsi, appena qualche giorno prima, per fermare il massacro ad Aleppo: che ora si manifestino di nuovo, per fare del piccolo Israele il Paese che più ostacola la pace in questo momento, che credano di poter ritrovare, fra gli applausi dei presenti, parte del loro onore perduto e di riconsolidare così, a discapito dello Stato ebraico, una comunità internazionale frantumata e spettrale è lamentevole e al tempo stesso agghiacciante. C’era il penoso testo della Risoluzione che — malgrado la frase che condanna «tutti gli atti di violenza contro i civili, fra cui gli atti terroristici» (questo «fra cui gli atti terroristici» lascia perplessi: ci si chiede quali possano essere gli altri «atti di violenza» messi quindi sullo stesso piano degli «atti terroristici») — faceva degli israeliani i responsabili principali, per non dire unici, del blocco del processo per la pace: e la testardaggine palestinese? L’ambiguo linguaggio del governo di Ramallah? Gli alberi di Natale su cui, in certi quartieri della Gerusalemme araba, sono state appese, come fossero ghirlande, foto di «martiri» morti «in combattimento», cioè nel tentativo di pugnalare civili israeliani? Nulla di tutto questo, per i redattori della Risoluzione come per coloro che l’hanno votata, poi celebrata, rappresentava un «ostacolo alla pace»; nulla è paragonabile alla perfidia della politica di Netanyahu che moltiplica le colonie.

C’era la questione delle colonie e il modo in cui, ancora una volta, è stata presentata. Che sia un errore continuare ininterrottamente con gli insediamenti in Cisgiordania, è evidente. E che all’interno della destra israeliana vi sia un numero sempre più grande di falchi che, con Benjamin Netanyahu in testa, sognano l’amplificarsi del processo e la creazione di una situazione definitiva, è probabile. Ma non è vero che siamo già arrivati a questo punto. Non è esatto presentare tali costruzioni come una proliferazione metodica e maligna, che produce metastasi nella futura Palestina e già in anticipo la smembra. La realtà, chiara agli occhi di chiunque faccia lo sforzo di analizzare le cose senza paraocchi e senza troppa passione, è che la concentrazione territoriale degli insendiamenti più popolosi genera una situazione che, malgrado il numero, non è radicalmente diversa da quella che prevaleva nel Sinai prima dell’accordo con l’Egitto del 1982 o nella Striscia di Gaza prima dello smantellamento deciso da Ariel Sharon nel 2004; la realtà è che tali costruzioni sono ancora abbastanza vicine alla Linea verde perché sia possibile, giunto il momento, procedere a scambi di territori e iniziare, altrove, per gli insediamenti più lontani e più isolati, evacuazioni dolorose (senza parlare dell’opzione secondo cui un certo numero di ebrei potrebbero vivere in terra palestinese così come un milione e mezzo di palestinesi vivono in Israele condividendone appieno la cittadinanza…).

Infine, per la prima volta da 40 anni, c’è stata l’astensione a sorpresa dell’ambasciatrice Samantha Power; poi, qualche giorno più tardi, il lungo discorso di accompagnamento del segretario di Stato John Kerry. Si può dire quel che si vuole. Ma vedere questa amministrazione che tante concessioni ha fatto all’Iran, tanto ha ceduto alla Russia, e ha inventato in Siria la dottrina della Linea rossa, che in fin dei conti di rosso ha solo il sangue dei siriani sacrificati sull’altare della rinuncia alla potenza e al diritto; vederla dunque riprendersi e quasi trasformarsi alzando la voce, in extremis, contro quella pecora nera su scala planetaria, spelacchiata e rognosa, che è il Primo ministro di Israele, è miserevole! Non riconosco più, nella posizione troppo facile in cui troppo comodamente si ritrova il fantasma di una autorità perduta, il giovane e sconosciuto senatore che incontrai a Boston, un giorno di luglio del 2004, quando mi decantava la duplice gloria, a suo avviso parallela, del movimento di liberazione del popolo nero e della nuova fuga d’Egitto che per gli ebrei è il sionismo. Sento fin troppo i segni premonitori di una umanità smembrata, dove si ripercuote come non mai lo sfasciamento di imperi e visioni del mondo; una umanità destinata all’infinito ripetersi di ingiustizie e carneficine, ma dove l’odio più antico diventerà, per tutti o quasi, religione.

Bernard-Henri Lévy, Corriere della Sera 17 gennaio 2017

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