Di fronte a una perdita, relativa o assoluta, da dove traiamo le energie per reagire? Una riflessione di David Meghnagi (da Moked)

“Perché proprio io e non altri?”. Per chi ha perduto violentemente i genitori e la famiglia, gli amici e l’intera comunità di appartenenza, è una domanda angosciosa, che può minare dall’interno ogni gioia di vivere. La ragione e il buon senso rispondono, dicendo: “Ti sei salvato per mera fortuna”. “È stato solo un caso fortuito”. “Ti sei salvato”. “È toccato a te, poteva capitare ad altri”. “È vero”, dice una voce proveniente dal Super Io. “Mi sono salvato per caso”, “Qualcun altro è però morto al posto mio e di notte il suo sguardo m’insegue”. “Non sono stato certo io a decretarne la morte”. “Come lui, ho sperato sino alla fine di salvarmi”. “Io però mi sono salvato. Lui è morto al posto mio e io ho segretamente gioito, per non essere stato selezionato”. Il fardello di senso di colpa inconscia per essere sopravvissuti, mentre altri morivano, l’impressione di essere in qualche modo moralmente debitore, sono un tarlo che può corrodere l’intera esistenza: “Come schiavo potevo lavorare in un ambiente chiuso”. I sommersi al contrario “stavano tutto il giorno all’aperto ed erano condannati a morire prima”.

Di fronte a situazioni estreme, il sopravvissuto può lasciarsi distruggere. Il ricorso al suicidio, può assumere il significato di una ribellione estrema. “Morire” con le proprie mani, come avvenne per coloro che si gettavano sul filo spinato carico di elettricità, o come avvenne prima per coloro che si tolsero la vita, con le proprie mani, in Italia, in Austria e in Germania all’indomani delle Leggi razziste, è stato anche un disperato tentativo di sfuggire alla condizione d’impotenza estrema. Uscendo da scena “per scelta propria”, da un mondo che aveva perduto ogni significato, in un grido disperato di libertà si nega al persecutore l’esercizio di un potere assoluto sulla nostra esistenza e sulle nostre paure. Di fronte a un’esperienza estrema, si può reagire scindendo le emozioni dalle rappresentazioni, i fatti accaduti dai sentimenti con cui li abbiamo vissuti. Scissione, negazione e rimozione sono in questo caso delle messe in atto per sfuggire a un’esperienza interiormente insopportabile. Che solo molto dopo può tornare a essere riesaminata.

Di fronte a situazioni estreme, il sopravvissuto può lasciarsi distruggere. Il ricorso al suicidio, può assumere il significato di una ribellione estrema. “Morire” con le proprie mani, come avvenne per coloro che si gettavano sul filo spinato carico di elettricità, o come avvenne prima per coloro che si tolsero la vita, con le proprie mani, in Italia, in Austria e in Germania all’indomani delle Leggi razziste, è stato anche un disperato tentativo di sfuggire alla condizione d’impotenza estrema. Uscendo da scena “per scelta propria”, da un mondo che aveva perduto ogni significato, in un grido disperato di libertà si nega al persecutore l’esercizio di un potere assoluto sulla nostra esistenza e sulle nostre paure. Di fronte a un’esperienza estrema, si può reagire scindendo le emozioni dalle rappresentazioni, i fatti accaduti dai sentimenti con cui li abbiamo vissuti. Scissione, negazione e rimozione sono in questo caso delle messe in atto per sfuggire a un’esperienza interiormente insopportabile. Che solo molto dopo può tornare a essere riesaminata.

Come nell’episodio biblico di Lot, occorre non voltarsi, per non diventare appunto “una statua di sale”. Essendo impossibile dimenticare, si fa di tutto per impedire che la tremenda esperienza subita, possa modificare la nostra personalità. Anche se nulla è più come prima, per non impazzire ci si aggrappa a un simulacro di “normalità” apparente. Il sopravvissuto sa che solo così il mondo potrà non percepirlo come “un fastidio”. A meno di non trovare un senso che renda sopportabile un’infelicità profonda, dando un senso nuovo all’esistenza, trasformando la condizione di vittima in quella di testimone. In questo delicato e tormentato passaggio, la vita può tornare ad avere un senso. Non è più vuota. Abbiamo una responsabilità cui non possiamo venire meno. Come per gli antichi profeti, è una necessità esistenziale, che dà un senso nuovo e profondo all’esistenza. I sopravvissuti che negavano che l’esperienza del Lager avesse ferocemente stravolto la loro capacità d’integrazione, che rifuggivano dai loro sensi di colpa inconsci, negando la sensazione di avere uno speciale debito morale da estinguere, potevano nella vita anche cavarsela bene. Almeno in apparenza potevano apparire “realizzati”.

Sotto la coltre di un ritorno apparente alla normalità, vivevano in realtà come svuotati. Gran parte delle loro energie erano spese per mantenere funzionanti meccanismi complessi e terribilmente costosi, come la negazione e la rimozione, nella consapevolezza profonda che la loro integrazione apparente nel mondo circostante, non poteva in alcun modo offrire sicurezza, qualora fosse stata di nuovo messa alla prova, essendo venuta terribilmente meno già una volta a questo compito. L’apparente normalità ritrovata poggiava su un castello di carte, fondata su un’insicurezza mascherata, carica di un’angoscia che consumava l’esistenza, dove a dominare, era la precarietà. “Il popolo degli alberi”, così titola in modo commovente un opuscolo del Keren Kayemeth, per ricordare le persone scomparse, con albero piantati nei luoghi più desertici della Terra dei Padri e delle Madri, simbolo e metafora dell’anima ferita in cerca di consolazione. Conservare le abitudini e i riti, continuare a vivere come se tutto fosse normale, alzarsi la mattina, radersi come ogni giorno e andare al lavoro anche se tutto è ormai privo di senso, può talora essere l’estrema risorsa contro la disperazione e la tentazione del suicidio. La più distruttiva delle risposte a un’esperienza estrema, è la conclusione che la reintegrazione della personalità sia ormai impossibile, oltre che inutile e priva di senso.

La decisione inconscia di non essere capace di ricostruirsi la vita, ha come sfondo la percezione che tutto quello che dava significato all’esistenza, è andato per sempre perduto senza possibilità di recupero, e che tutto ciò che dava significato all’esistenza è per sempre scomparso. La condizione preliminare per il conseguimento di una nuova integrazione è data dal riconoscimento della gravità del trauma subito e della sua natura. Fatto questo, diventa più facile accettare le angosce più interne, far fronte ai sentimenti di colpa persecutori, ricostruire l’esistenza trovandovi un senso, riparare il mondo interno ed esterno, trasformando la propria condizione di vittima in quella di testimone.

Dal deserto appunto (in ebraico midbar), alla parola (davar) che irrompe nel buio dell’anima e riporta la luce e la speranza nell’anima ferita. Spezzato nell’animo, il sopravvissuto deve far fronte all’incredulità e alla voglia di voltare pagina. Non necessariamente per motivi di antisemitismo, anche se c’è da interrogarsi su quanto l’antisemitismo abbia pesato nei dinieghi interpretativi con cui la Shoah è stata sminuita nei suoi reali significati e implicazioni, all’indomani della seconda Guerra mondiale. Anche in Israele, dove ogni sera col rischio di impazzire si ascoltavano in religioso silenzio, i nomi di chi cercava un parente vivo, si celebrava la rinascita di una nazione uscita vittoriosa da una guerra sanguinosa scatenata dai vicini per distruggerla. Evitando di soffermarsi troppo, per non impazzire, su quelli che venivano da là. Con delicatezza si diceva di chi era sopravvissuto: Hu misham. “Egli proviene da là”, intendendo con ciò che nonostante l’apparente normalità, quella persona non è mai tornata da quei luoghi. La contrapposizione tra chi è misham (“di là”) e chi è mikkan (“di qui”), è diventata un topos. Il desiderio più ardente che aveva tenuto in vita il sopravvissuto, era di poter un giorno tornare e raccontare. Credere in questa possibilità aveva reso più sopportabile il dolore.

Ora però che era tornato, nessuno voleva in realtà ascoltare. Non a caso la poesia di Primo Levi, con cui si apre Se questo è un uomo è dedicata allo Shema’. Come una mezuzah posta all’ingresso di un libro diventato il simbolo di una casa e di una sinagoga in cui meditare, ci dice che c’è dell’altro che la prosa non è in grado di contenere e che solo la poesia può evocare. Come se Primo Levi volesse dire al suo lettore di non farsi ingannare dalla sua prosa piana e marmorea. Attraverso la prosa, si poteva cogliere solo un’eco. Il dolore muto e indicibile era nelle mezuzot poste agli inizi e alla fine dei suoi libri. Necessario per non essere sommersi da un dolore senza nome, il distanziamento emotivo, può rendere possibile per il sopravvissuto una vita apparentemente “normale”. Il prezzo è però molto alto. Le scissioni messe in atto per reggere alle sfide del tempo, devono essere rinforzate da nuove scissioni con conseguente investimento e spreco di energie vitali. Come in una zattera sospinta nei flutti, il sopravvissuto galleggia spaesato, angosciato e incompreso, anche dove è realmente amato. Una tale condizione di frammentazione e di un lutto “impossibile” è ben rappresentata nei romanzi di Isaac Bashevis Singer, che non a caso ha continuato a scrivere in yiddish, come se i veri destinatari dei suoi romanzi, i lettori assassinati a milioni, fossero ancora in vita. Parlando nella lingua dei morti, facendo poi tradurre i suoi libri, Singer compiva il più grande e disperato ritorno in vita di un intero mondo scomparso. Parlando nella lingua dei morti, quel mondo scomparso poteva idealmente tornare a vivere, rendendo con ciò possibile il lavoro del lutto e la ricostruzione dell’esistenza.

David Meghnagi/Moked 7 settembre 2017

*David Meghnagi, nato a Tripoli nel 1949, vive e lavora a Roma. Di famiglia ebraica, è ideatore e direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah presso l’Ateneo di Roma Tre, all’interno del quale dirige un progetto di catalogazione della musica concentrazionaria (prevede la pubblicazione della musica composta nei campi di prigionia della Seconda Guerra Mondiale). È professore di Psicologia Clinica, Psicologia dinamica e Psicologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, docente di Psicologia della Religione e di Pensiero Ebraico al Master Internazionale in Scienza della Religione di Roma Tre.

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