È possibile oggi in Italia ridimensionare i cosiddetti movimenti “antisistema”? Un’analisi di Angelo Panebianco che parte da una riflessione sul nostro passato (dal Corriere).

Forse la fine della più grave crisi economica del dopoguerra ridimensionerà, magari anche drasticamente, in altri Paesi europei, il peso dei movimenti impropriamente definiti populisti ma che è meglio definire «antisistema» (nemici della società libera o aperta). Ma è dubbio che tale ridimensionamento sarà possibile in Italia. Per un insieme di ragioni che hanno a che fare con il nostro passato sia lontano che recente. Da noi l’avversione per la società libera, per l’ordine liberale, è sempre stata potentemente diffusa. Non si può dimenticare che l’Italia, fin dalla sua rinascita democratica, e per tutta la Guerra fredda, ha goduto del dubbio privilegio di avere il più forte partito comunista d’Occidente. Se si sommano i voti dell’estrema sinistra e della estrema destra di allora, risulta che la quota di elettori che votavano per partiti ideologicamente e programmaticamente illiberali non fu mai inferiore al trenta per cento del totale. Si aggiunga che, soprattutto negli anni Cinquanta /Sessanta, nella Dc e nel Psi erano presenti correnti di minoranza, anch’esse a vario titolo illiberali. Date le preferenze di una così ampia parte di italiani, ciò che salvò la nostra fragile e zoppicante democrazia, ciò che impedì che essa venisse sostituita da una qualche forma di corporativismo autoritario (magari al termi ne di una guerra civile), fu l’ancoraggio internazionale, il fatto che la Guerra fredda ci «inchiodò» al blocco occidentale, ci costrinse ad accettarne regole e costumi.

Se si guarda alle percentuali che i sondaggi assegnano oggi alle formazioni illiberali di varie e variopinte tendenze si ottengono percentuali non dissimili da quelle che premiavano i partiti illiberali della Prima Repubblica. Sono cambiate le motivazioni ideologiche ma non le pulsioni e gli orientamenti di fondo, coperti, giustificati e (più o meno) nobilitati da quelle motivazioni. C’è dunque una costante storica. Ma a essa si sono aggiunti, in epoca più recente, altri fattori che, anch’essi, alimentano le propensioni illiberali di una parte cospicua di nostri concittadini. Facciamo un rapido elenco. Si sono definitivamente consumate le illusioni — che c’erano nei primi decenni dell’età repubblicana — di potere un giorno azzerare il divario fra Nord e Sud (un terzo del territorio nazionale), di risolvere la questione meridionale. Nessuno ci crede più. Pensare che questa fine delle illusioni non abbia conseguenze destabilizzanti, che il Sud non alimenterà forme di rancoroso ribellismo, è sbagliato. C’è poi una più generale «sindrome da sottosviluppo» che ha colpito le menti di tanti, non solo al Sud. Per sindrome da sottosviluppo intendo un insieme di atteggiamenti che indicano la volontà di prendere congedo dalla modernità. È una sindrome incompatibile con le esigenze di una società libera (e quindi anche prospera e dinamica). Ha due principali cause: una prolungata stagnazione economica e un sistema di istruzione che, in diverse parti del Paese, è inceppato, capace più di sfornare diplomi, pezzi di carta, che conoscenze.

La combinazione di questi fattori spiega la diffusione di atteggiamenti anti-industriali (spacciati per sensibilità ecologica) e di incomprensione/avversione per la scienza e il progresso tecnico-scientifico. In un Paese che si de-industrializza si diffondono atteggiamenti del tipo «uva acerba»: «Sai che ti dico? Non ci interessa più un Paese industriale moderno. Fa male alla salute». Guardate certe sentenze dei Tar quando sono in gioco investimenti e attività industriali e vi accorgerete di quanto sia diffusa questa sindrome. Anche l’altro baluardo di una società moderna, la scienza, da noi è sotto attacco. La vicenda dei vaccini docet. D’altra parte, un sistema educativo poco selettivo, che diploma anche coloro che, per preparazione, non ne avrebbero diritto, perché dovrebbe permettere alle persone di apprezzare una cosa complicata come la scienza? Senza contare il fatto che da noi sono troppo pochi, tradizionalmente, i laureati in materie scientifiche e quei pochi non riescono a fare massa, non riescono a influenzare le opinioni dominanti. Proprio perché la sindrome da sottosviluppo ha scavato così a fondo, ad esempio, è stato preso sul serio da tanti il «principio di precauzione»: l’arma ideologica escogitata per fermare l’innovazione tecnica, l’idea, ridicola e assurda, che non si possa fare alcunché senza essersi prima assicurati di avere abolito ogni rischio.

I rischi, naturalmente, non possono mai essere eliminati del tutto, la vita stessa è un rischio. Invece, il progresso tecnicoscientifico può essere benissimo eliminato, o quanto meno ritardato, a colpi di ideologia. Oltre alla sindrome da sottosviluppo, da alcun decenni, fornisce argomenti ai nemici della società aperta anche il circo mediatico-giudiziario. Il suo incessante operare ha prodotto due conseguenze: ha annullato, in primo luogo, nella coscienza di tanti, il principio fondamentale su cui si regge la società libera, la distinzione e la separazione fra il «peccato» e il «reato», fra l’etica e il diritto. Ha convinto molti, in secondo luogo, che la politica rappresentativa sia in mano ai corrotti e che occorra quindi ristabilire — contro la politica rappresentativa — il governo della virtù. Non c’è nemmeno bisogno di rifarsi al «principio di precauzione». Non ci sono rischi, solo certezze: qualunque cosa accada negli altri Paesi europei, in Italia i nemici dell’ordine liberale continueranno a essere davvero tanti.

Angelo Panebianco, Corriere della Sera 22 settembre 2017

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