Il codice dello scorpione è ambientato nella Spagna della resa dei conti fra repubblicani e nazionalisti. Allo scoppio dell’insurrezione militare in Marocco del 17 luglio 1936, il trentatreenne José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange e ex deputato in Parlamento, era già in cella d’isolamento. Lo avevano arrestato a Madrid nel marzo di quello stesso anno, subito dopo la vittoria del Fronte popolare – socialisti, radicali, comunisti e anarchici – alle elezioni, e poi trasferito nel carcere di Alicante.

Figlio di quel Primo de Rivera che, con il consenso di Alfonso XIII, aveva instaurato dal 1923 al 1930 una dittatura militare benedetta dalla Chiesa e sostenuta dai ceti conservatori, al termine della quale de Rivera si era esiliato a Parigi, il re si era ritrovato senza la corona e la Spagna con la Repubblica, José Antonio non aveva le stesse idee del padre, senza per questo aver abbracciato quelle dei suoi avversari. La Falange, cui aveva dato vita nel 1933, si rifaceva al fascismo, il fascismo-movimento più che il fascismo-regime: era nazionale, era interclassista, era anticapitalista.

All’indomani, dunque, dell’alzamiento del generale Franco nel protettorato africano e dei generali Queipo de Llano a Siviglia e Mola a Pamplona, quella che era la più significativa forza d’opposizione politica si ritrovava senza il suo leader e i militari ribelli senza chi poteva essere loro alleato, ma anche loro alter ego. Stimato da Unamuno, amico di Maria Zambrano e di García Lorca, teorizzatore del suo movimento come di «un progetto politico messo nelle mani dei poeti», José Antonio era, come ha scritto Andrés Trapiello nel suo Las armas y las letras, «la sola figura politica prestigiosa dell’epoca» e nella guerra civile che andava precisando i suoi contorni, fra il rosso dei repubblicani e il nero dei mori e del clero ribelli al governo legittimo, non c’era spazio per la sua camicia azzurra di capo della Falange. Così, José Antonio venne fucilato nel novembre del ’36 su ordine del Fronte popolare e subito trasformato da Franco nel più stupefacente santino retorico bellico e poi post-bellico, quello stesso Franco divenuto proprio allora «generalissimo» e che però si era ben guardato dal cercare, in qualunque modo, di tirarlo fuori dal carcere. Gli serviva un eroe morto, non un rivale vivo.

I mesi in cui il destino di José Antonio Primo de Rivera si compì, sono il periodo scelto da Arturo Pérez-Reverte per ambientare Il codice dello scorpione (Rizzoli, pagg. 332, euro 20, traduzione di Bruno Arpaia), dove la finzione romanzesca è al servizio di quei complicati intrecci storico-politico-ideologici prima delineati, il gioco di specchi fra verità e menzogna, la ragion di Stato, reale e/o presunta, come etica, l’utilizzo di ogni mezzo per il raggiungimento dell’unico fine degno di considerazione: il potere. Lo sfondo in cui la storia si svolge, dà al romanzo una tensione extratemporale, perché la guerra civile è una categoria universale, identica cioè pur nella diversità delle epoche storiche, come già ebbe a scrivere Henry de Montherlant nel mettere in scena quella romana fra Cesare e Pompeo: «Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra delle piazze inferocite, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico. Io sono la Guerra Civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo».

E un lupo è infatti il Lorenzo Falcò protagonista del romanzo, a cui il franchismo affida la missione di far evadere José Antonio dal carcere e contemporaneamente trama perché in quel carcere muoia. Falcò in fondo è stato scelto perché è uno che alla vigilia del golpe militare, quando sta per essere reclutato, si è limitato a chiedere: «Siamo pro o siamo contro?». Non è però solo opportunismo, cinismo, mancanza di ideali, è che in quella Spagna i confini, di qualsiasi tipo, sono incerti da troppo tempo e il grido di dolore di Ortega y Gasset per la decadenza del suo Paese, «la Spagna invertebrata», ha mischiato le carte della destra come della sinistra, del pensiero liberale e di quello aristocratico, delle masse e delle élites, della conservazione e della rivoluzione. Così, quando alla fine si arriva alla resa dei conti del 1936 succede che spesso le scelte di campo, intellettuali e no, siano casuali: dipende da dove ci si trova, da chi comanda, da chi si conosce. E la vendetta, come la salvezza si muovono nella medesima logica, perché la guerra civile riguarda chi fa parte della stessa società, frequenta gli stessi luoghi, è andato nelle stesse scuole, ama le stesse donne.

C’è chi ha paragonato Pérez-Reverte a un Dumas del XXI secolo e il paragone non è né arrischiato né banale. Ciò che però interessa in una comparazione del genere non è tanto il modo in cui lo schema dei romanzi dumasiani, la serialità, l’intrigo, l’avventura, viene riproposto quasi due secoli dopo, quanto la visione del mondo a essi sottesa. Che li ambienti nel XVII secolo, il ciclo dei moschettieri, o nel XIX, Il Conte di Montecristo, Alexandre Dumas li fa muovere all’interno di un mondo circoscritto in cui il bene e il male si fronteggiano e sono riconoscibili: una legittimità reale per cui combattere, un’offesa ingiusta da lavare con il sangue, una fedeltà, un amore, un’amicizia per cui morire, la dignità e il rispetto di se stessi per poter continuare a vivere. Noi sappiamo benissimo, come del resto benissimo lo sapeva lo stesso Dumas, che anche allora l’inganno, la vigliaccheria, il tornaconto volgare, la furbizia e il tradimento la facevano da padrone, e però era la cornice del tempo a dettare le regole, e non importa se e quanto fosse ipocrita e/o disattesa. C’era il cavaliere, il gentleman, e c’era l’avventuriero, il fuorilegge. Poteva capitare che il primo si tramutasse nel secondo, per la difesa di una causa persa, ma mai il contrario, se non per una forma di ascesi, una sorta di grazia redimente.

Essendo nato nella seconda metà del Novecento, Pérez-Reverte si ritrova con questo meccanismo ormai inceppato, ma ciò non ha a che fare con l’essere umano, che è sempre lo stesso, quanto con il sistema di valori che gli sta intorno. La modernità, parliamo di quella occidentale, ha finito con l’uccidere il vecchio mondo e il codice comportamentale che portava con sé, rozzo se si vuole, semplicistico, eppure reale. Al suo posto, dopo un interregno nel nome delle ideologie rivelatosi fallimentare, ne ha messo uno indistinto e insieme universale, più sofisticato magari, egualmente teorico e tuttavia astratto. Non esistono più cioè cause concrete, tangibili, per cui abbia senso vivere e morire, la propria terra, la propria donna, la bandiera e/o la famiglia, per dirla sbrigativamente, relegate anzi fra gli strumenti inutili e dannosi di un passato da dimenticare. Ci son invece quelle remote e non verificabili, la pace nel mondo, la fratellanza, la santificazione della natura, l’umanitarismo, il cosmopolitismo, che volendo nella loro vaghezza dire tutto, finiscono con il non dire più niente.

Così il mondo post-moderno di Pérez-Reverte può essere popolato soltanto di antieroi, ovvero di eroi con un’etica tutta propria e particolare, e in assoluto contrasto con lo spirito del loro tempo, laddove quello pre-moderno di Dumas aveva la sua ragion d’essere proprio in eroi che al loro spirito del tempo facevano riferimento. È una caduta verticale delle idealità, e lo è al punto tale che anche nei suoi romanzi storici, la serie del Capitano Alatriste, Pérez-Reverte getta sul suo soldato di ventura seicentesco lo sguardo disincantato di chi si trova a vivere tre secoli dopo. Si potrà obiettare che il mercenario è una figura tipica di quell’epoca, ma il punto è un altro: nella società del suo tempo quel soldato avrebbe voluto elevarsi, è il rango di cavaliere quello cui aspira, e non importa quanto e se si tratti di una impresa impossibile. Secoli dopo, l’occhio della postmodernità lo inchioda invece alla sua condizione: non credendo più in alcuna palingenesi, ne fa l’eroe della propria dannazione.

Nel Codice dello scorpione, l’antieroe Lorenzo Falcò assolve proprio a questa funzione e non sorprende che dovendo scegliere un periodo in cui situare una nuova saga Pérez-Reverte opti per quello più sanguinoso e tragico del suo Paese, appunto la guerra civile del ’36-39. È un conflitto dove naturalmente ci sono anche gli idealisti, quelli in buona fede, quelli disposti a morire per la causa in cui credono e lo scrittore è troppo buono storico per non sapere che esistono in entrambi gli schieramenti che si fronteggiano, che non è una lotta dove il Bene sta da un lato e il Male dall’altro. E però è un idealismo che è proprio il mondo moderno uscito dalla Grande guerra a rendere fragile, perché le antiche forme di convivenza, i rituali che le garantivano, sono stati spazzati via dalla tecnica, dalle masse, dalla distruzione delle masse attraverso la tecnica, e il nuovo mondo si ritrova con delle parole d’ordine che non valgono più nulla, oppure finiscono con il rappresentare l’esatto contrario del loro significato. Il secolo delle ideologie non riesce a fare di quest’ultime l’asse portante delle scelte e dei comportamenti, il nuovo motivo per cui vivere e morire. Nessuna di esse è così pura da giustificare i delitti che il militante commette in suo nome. Alla fine, c’è l’orrore, ma non c’è più l’onore.

Così, il referente dell’antieroe Falcò si trova amaramente a constatare «di aver servito una monarchia e una repubblica e non so chi servirò in futuro. Questo lavoro sarebbe insopportabile se non avesse certe regole contorte. Forse non saranno regole convenzionali, e nemmeno degne, ma sono le nostre. Anche se la principale è proprio l’apparente assenza di regole». Detto in altri termini, «ognuno ha la sua lealtà» come confessa Falcò al termine della sua missione, unico retaggio possibile di quell’«uno per tutti, tutti per uno» di D’Artagnan e compagni. Non esistono più le cause, sono rimasti gli individui.

Stenio Solinas, IL GIORNALE, 20 settembre 2017

*Nella foto Arturo Pérez-Reverte

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