Sulle tracce dei jihadisti del deserto
“L’America non ci sconfiggerà mai”. Un reportage di Domenico Quirico per La Stampa.
Il viaggio è stato breve, ma avventuroso. Eppure siamo alla periferia di Agadez. Il pomeriggio si trascina greve in una quiete immensa sotto il peso schiacciante del sole. Case di fango cotto già in rovina, i muri cadono ogni giorno sotto i colpi del vento. Inesorabilmente Agadez torna alla terra, muore in un enorme tappeto di terra bruna che scompare in un orizzonte sbavato di sabbia e di polvere: l’Hair.
Sono venuto a cercare qui la cosa più pericolosa nel Sahel di oggi: informazioni. Quattro Berretti verdi americani sono stati da poco uccisi in un’imboscata jihadista al confine con il Mali. Un piccolo episodio, in fondo, della nuova, semiclandestina guerra africana del Pentagono avviata da Obama: eppure è come se quella sanguinosa e rapida mischia nel deserto emettesse un segnale, per rivelarci che l’islamismo del Sahel, che minimizziamo a poche unità assediate in invivibili montagne, in realtà è ferocemente vivo e vitale. E prepara sanguinose sorprese e nuovi fronti.
La guerra silenziosa
Gli americani sono qui, nella grande base costruita accanto all’aeroporto, 800 uomini con aerei, droni, veicoli per il deserto. Pattugliano dal cielo e da terra, il braccio più forte del Comando Africa. Sono ovunque, solo in città non li vedi mai. Una guerra silenziosa, strana, senza eroi, senza bollettini. Forse perché in anni di attività il bilancio è fallimentare: nonostante i mezzi dispiegati, le tecnologie, i corpi speciali, gli alleati africani, la jihad del deserto non è stata sconfitta.
L’uomo che mi ha portato qui tra mille precauzioni non ha dubbi: «I toubus sanno tutto, non succede nulla nel deserto tra qui il Mali, l’Algeria e la Libia che non passi sotto il loro controllo: sigarette, droga, armi, medicine false, migranti. Non si mescolano ad al Qaeda e all’Isis, ma controllano la maggior parte del contrabbando nell’Est del Sahara, attività in cui anche gli islamisti sono molti implicati. Se vuoi andare nel deserto conoscono tutte le piste e se non sono aperte passano per le dune. Abdellah è un uomo che sa, un capo, ma è difficile da trovare perché è sempre in movimento nel deserto».
Aspettiamo sotto il sole. Piccoli esseri simili a lucertole dalle dita a cuscinetto e dagli occhi sporgenti che chiamano gechi, corrono sulle pareti e fanno balzi a caccia di insetti. Nel silenzio si sente il loro chioccio gutturale. Nella via di fronte tre vecchi, eleganti come re, stanno accoccolati in silenzio su basse sdraio di legno con le mani penzoloni tra i ginocchi, gli occhi fissi su qualcosa davanti a loro: occhi grandi e infossati, la cornea chiara, le pupille aguzze e piccole, come se tutta la vita che resta loro fosse concentrata lì. Aspettavo il toubus che sa tutto di al Qaeda e pensavo tra me e me: questo è il Sahel, questo nome è pieno di milioni di uomini, di rassegnata disperazione, di vite legate e affollate, soffocanti come l’immobile calura senza aria che prende alla gola.
Il predicatore
Un vecchio fuoristrada è fermo all’angolo, dentro tre uomini immobili nei loro turbanti: dal motore l’olio sgocciola nero e denso sulla sabbia chiara come sangue da una ferita.
Abdellah ha una cicatrice in volto e una luce tagliente negli occhi. Il suo modo di parlare è provocante ed esplosivo, mezzo irritabile e mezzo affettuoso. «Vuoi sapere se la jihad nel Sahelistan è ancora forte?». Estrae il cellulare, preme dei tasti. Nella stanza irrompe una voce che urla in una lingua sconosciuta, c’è rabbia odio in quella voce, e una forza selvaggia che è al di là della comprensione delle parole. «Questa è una predica di Hamadoun Koufa, il nome non ti dice niente. I militari francesi e americani erano certi che fosse morto. Invece. È un uomo di Dio, un predicatore e un capo della Jihad, di un nuovo Jihad. La lingua in cui parla è peul, lui è un peul. I suoi appelli alla guerra santa sono registrati sui cellulari di mezza africa. Perché i peul sono nomadi, 30 milioni che vivono in tutti i Paesi del Sahel e giù fino alla Costa d’Avorio, alla Nigeria, alla Guinea Bissau. Sono un popolo antico e guerriero come tutti i nomadi, un secolo fa fondarono un grande impero che si chiamava l’impero del Macina. Sai come ha battezzato il suo esercito di guerriglieri Koufa il predicatore? La katiba Macina. Ha fatto diventare il centro del Mali una regione fuori controllo, ora esporta la Jihad anche in Burkina Faso che finora era un Paese tranquillo».
La rabbia e la siccità
Abdellah mi racconta l’ultima metastasi della Jihad saheliana, la guerra santa che contagia i pastori peul. Reclute perfette che si muovono con le loro mandrie attraverso le frontiere dal Centrafrica al Sahel. Le ragioni della loro rabbia sono le stesse che hanno reso i tuareg dei salafiti: la miseria. Braccati dalla siccità che uccide il bestiame, dall’espandersi delle terre agricole che soffocano la transumanza, bevono i proclami alla rivolta di Koufa che si scaglia contro i privilegi delle famiglie dei marabutti e i peul detti di città, ricchi che derubano i confratelli.
Un rumore di fuoristrada si avvicina alla casa. L’uomo tace fino a quando non è ben certo che si allontani.
«Voi commettete tutti lo stesso errore: collegate questi uomini solo ad al Qaeda, all’integralismo. In realtà questa gente si preoccupa di una sola cosa: i traffici nel deserto! Usano degli slogan per reclutare uomini, il nazionalismo tuareg o l’islam e il salafismo, ma alla fine tutti lavorano per il denaro. Per questo non li sconfiggerete: sono l’economia del Sahel! Una buona idea era arruolare la gente del deserto come soldati al vostro servizio. Sembrava funzionasse. Attirati dal denaro si sono moltiplicati i gruppi di autodifesa, le bande dei patrioti tutti pronti a morire contro gli jihadisti! I soldi sono finiti e le armi sono servite per regolare i conti tra le tribù».
La guerra che non si vince
Forse anche per gli americani, come per i francesi questa è una guerra che non si può vincere. Perché è una guerra contro lo spazio infinito dove i droni e gli uomini anche ben addestrati diventano nulla. Le montagne dell’Adrar des Ifoghas o dell’Hair; o il deserto vicino al confine tra Niger e Mali, a Tillabery, dove sono caduti gli americani: conosco quei luoghi, superfici morte, insensibili e morte più di un pianeta disabitato. Si marcia su una crosta dura, nemica, che non assorbe neppure i sassi che il sole fa schiantare e frantuma come se internamente esplodessero.
Qui esistono luoghi come quello che i contrabbandieri chiamano Bouahaira, il lago, un centinaio di chilometri a Nord Ovest di Arlit. Non c’è in realtà una sola goccia d’acqua in questo deserto feroce, solo un’immensa distesa di sabbia accerchiata da montagne. La sua forma e il colore sotto la luce della Luna danno talora l’effetto di una distesa di acqua. Qui si riuniscono, indisturbate, le carovane dei contrabbandieri prima di iniziare la traversata del Sahara. E i convogli di Mokhtar Belmokthar, il Guercio, il capo dell’Aqmi.
Qui scopri che la terra può non essere paesaggio e mostrarsi in una fase anteriore alla vita, in quanto la sua materia, sassi e sabbia, non conta come materia e supporto della vita. Qui solo gli uomini del deserto possono vivere e sconfiggere la Jihad: ma noi, con i nostri errori, li abbiamo spinti alla guerra santa.
(Domenico Quirico, LA STAMPA 10 ottobre 2017)