La donna, ieri e oggi
A 2000 anni dalla morte di Ovidio, alcune riflessioni dello storico Mario Setta
Ovidio, nato a Sulmona nel 43 a.C,, è un “cittadino del mondo” nel senso che ha rappresentato l’umanità nei suoi vari aspetti, pur accentuandone la dimensione “amorosa”. Per questo, come lui stesso si definisce, è il “magister amoris”.
“Ego sum praeceptor amoris” afferma nell’ “Ars Amatoria”. Le celebrazioni del bimillenario della sua morte offrono l’occasione per riflettere e ripensare il ruolo della donna. Donna, spesso condannata all’annichilamento della propria natura, della propria essenza, a causa dei travisamenti delle diverse culture, diverse religioni. Se il Cristianesimo evangelico ha liberato la donna, la chiesa-istituzione ha tentato, in un passato non troppo remoto, di schiavizzarla. Ridotta a “merce”, tanto da prescrivere nel matrimonio il “debitum coniugale” (debito coniugale) per la moglie e lo “jus in corpus” (diritto sul corpo) per il marito. In realtà solo diritti per gli uomini e solo doveri per le donne. Una morale lontana dagli insegnamenti e dagli atteggiamenti di Gesù. Ma, in altre forme religiose, la sessualità della donna viene negata, cancellata, eliminata fisicamente. Si pensi alle Mutilazioni Genitali Femminili, contro le quali, proprio cinque anni fa, il 14 giugno 2012, fu approvata una risoluzione congiunta del Parlamento Europeo per porne la fine (END FGM). Mutilazioni addirittura diversificate nei minimi particolari fisici come circoncisione, escissione, infibulazione, cauterizzazione.
La storia della Donna è una storia di ingratitudini, repressioni, violenze. La donna come oggetto, come strumento, come schiava.
Ovidio è stato certamente un interprete della natura umana sotto la dimensione amorosa. Nulla a che fare con le tecniche o con le aberrazioni erotiche, ma con un solo scopo preciso e dichiarato dall’inizio “…ut longo tempore duret amor” (I,38), perché l’amore duri a lungo. Nel periodo dell’esilio, anche se di fatto è un “relegatus non exul” (Tristia II,2), sembra pentirsi di aver scritto tanto sull’amore, essendone uscito con una “ricompensa funesta” (pretium triste) e perfino esecrando il giorno della sua nascita:
“Ecce supervacuus – quid enim fuit utile gigni? –
Ecco l’inutile giorno della mia nascita; che mi è servito infatti essere nato?” (Tristia III, 13).
Un uomo umano, troppo umano. Ed è questo che ce lo rende profondamente vicino. Come se volesse condividere ciò che tanti altri letterati di ogni tempo hanno sottolineato: “Homo sum: humani nihil a me alienum puto” (Terenzio), o “Nel mondo dell’uomo tutto è umano” (J.P. Sartre).
Ci sono quattro versi negli “Amores” di Ovidio che sembrano ridurre l’amore al numero di amplessi con le donne. Addirittura di coiti in una notte con la stessa donna, Corinna. Nove volte. Un numero che sfinirebbe qualsiasi maschio. Forse, oggi, perfino un cosiddetto“giovane stallone” dei siti dating-online americani.
At nuper bis flava Chlide, ter candida Pitho,
Ter Libas officio continuata meo est;
Exigere a nobis angusta nocte Corinnam ,
Me memini numeros sustinuisse novem.
(“Di recente ebbero di seguito il mio ufficio
Due volte la bionda Chlide, tre la candida Pitho,
Tre Libas; in una breve notte Corinna,
ricordo, pretese nove volte e riuscii”)
Questi versi non sono la dimostrazione che Ovidio sia un don Giovanni. Nell’opera di Mozart, su testo di Lorenzo da Ponte, Leporello fa l’elenco delle donne del padrone: “Madamina, il catalogo è questo delle belle che amò il padron mio: in Alemagna 231, 200 in Francia, in Turchia 91 in Ispagna sono già 1003…” Kierkegaard, nel “Don Giovanni”, si sofferma proprio sul numero 1003: “Voglio solo lodare il numero 1003, che è dispari e casuale; la cosa ha la sua importanza, perché dà l’impressione che la lista non sia ancora finita…”
Se il rapporto uomo/donna assume aspetti statistici si entra nel calcolo matematico che nulla ha a che fare con l’amore. Che, per sua stessa natura, non è quantificabile. Un simile argomento, anche se da postribolo, apre una delle pagine più tristi e drammatiche della storia della donna nei secoli e millenni. La donna è compartecipe, nel rapporto amoroso. Ma la sua dignità di persona umana è stata sempre sminuita, negata. Una non-persona.
Solo con la Rivoluzione Francese, nel 1792 uscì un libro dal titolo “Rivendicazione dei diritti della donna” di Mary Wollstonecraft. Ma è con Freud e la psicanalisi che si cercherà di scoprire il “continente nero”, come Freud definisce la donna, l’impossibile comprensione per un uomo di conoscere la complessità della sessualità femminile. E sorge il dibattito sull’orgasmo femminile clitorideo e vaginale. Per Freud la donna che rifiuta l’orgasmo vaginale è una donna “non cresciuta”. Ma alla tesi di Freud risponde una donna con un libro dal titolo “Il mito dell’orgasmo vaginale” (1941) di Anne Koedt, una femminista, che contesta la tesi di Freud. Carla Lonzi pubblica nel 1971 il libro “La donna clitoridea e la donna vaginale”, in cui sostiene che l’uomo, per motivi di dominio, “ha imposto il modello di piacere vaginale”.
La rivoluzione femminista del ‘900 ha cercato di affermare il ruolo e la dignità della donna-libera. Una rivoluzione che non ha conseguito risultati definitivi, ancora in fase di acquisizione. Si sono verificati anche gesti di esasperazione, come quello di Valerie Solanas, amica di Andy Warhol, col libro dal titolo: “S.C.U.M., manifesto per l’eliminazione dei maschi”. D’altronde la donna non sembra tollerare le mezze misure, perché non cerca la comprensione, ma l’uguaglianza, non l’indulgenza ma il rispetto, non la concessione ma il diritto. Basterà ricordare le molte opere scritte dalle femministe.
Dalla metà degli anni ’80 del secolo appena trascorso sembra “difficile parlare di femminismo al singolare visto il precisarsi e consolidarsi di posizioni teoriche assai differenti tra loro. […] Alcune femministe storiche… prendono posizione contro gli sviluppi che considerano negativi del femminismo degli ultimi anni” (Franco Restaino e Adriana Cavarero, Le filosofie femministe).
Il femminismo non più come rivendicazione di genere, ma come affermazione della natura umana in quanto tale. La grande sfida dell’umanizzazione, con la pari dignità tra sessi, sarà vinta solo quando l’atto più nobile, più amorevole, più razionale, donato all’Uomo per ri-creare la vita, non sarà più sottoposto alla deplorevole irrazionalità disumana, causa di efferate violenze sul corpo indifeso della donna. Luce Irigaray, famosa scrittrice che ha affrontato le tematiche femminili, sottolinea come la differenza tra uomo e donna non è stata mai superata e che resta ancora autentico il mito della caverna di Platone: la donna prigioniera nella caverna e l’uomo libero fuori dalla caverna. Come nel mito, è la donna stessa a spezzare le catene per uscire dalla caverna e conquistare la libertà.
Teilhard de Chardin, filosofo e paleontologo, nelle sue opere non fa che presentare una società in cammino verso la planetizzazione umana, in cui “la pace si avvererà di sicuro; per una fatalità che è solo suprema libertà” e che “bisognerà decidersi a riconoscere nell’amore l’energia fondamentale della vita”.
Mario Setta, ottobre 2017