Antologia del ritratto” è un percorso nella dissoluzione del ‘700 francese. Che si consegnò frivolamente al boia…

Nel pensare a un’Antologia del ritratto (Adelphi, pagg. 309, euro 15, traduzione di Giovanni Mariotti) in cui raccogliere il meglio di questo genere letterario, Emil Cioran si rese conto che ciò che il Settecento francese aveva ricevuto in eredità dal secolo precedente era «l’assenza di avvenire», ovvero la cristallizzazione di un’epoca, la sua trasformazione in serra artificiale. Cominciato con Luigi XIII, il Seicento aveva avuto in Luigi XIV, il re Sole, il suo astro più luminoso e più duraturo, settant’anni di regno, e tuttavia il più sterile.

Cioran non era il primo ad avanzare una considerazione del genere: già Saint-Simon, uno dei vertici della memorialistica settecentesca, aveva osservato che quel lungo regno «di vile borghesia, abile a governare a suo vantaggio e prendere il re dai suoi lati deboli, aveva saputo annientare tutto e impedire a ogni uomo d’essere uomo, sterminando ogni emulazione, capacità, frutto d’istruzione, e allontanando e rovinando accuratamente qualunque uomo che mostrasse qualche tenacia di propositi e sentimenti». Con la concisione che gli era propria, nell’Ottocento Chateaubriand avrebbe osservato che ciò che la Rivoluzione francese aveva sancito non era stato altro che l’esaurirsi di un mondo: «L’aristocrazia passa per tre età successive; l’età delle qualità superiori, l’età dei privilegi, l’età delle vanità. Uscita dalla prima, degenera nella seconda e si spegne nell’ultima».

Rispetto a questi due illustri predecessori, Cioran aveva tuttavia un’arma in più, il recul di un uomo del Novecento che traeva dal passato una lezione per il presente e per l’avvenire: «Per tutto il Settecento si dispiega lo spettacolo di una società tarlata, che potrebbe servire da modello a chiunque volesse disegnare il ritratto di un’umanità giunta al termine della sua evoluzione. Si può effettivamente immaginare la fase in cui l’uomo, estenuato, senza più risorse né desideri, si ripiega su se stesso e precipita nel proprio vuoto. Non è necessario fare uno sforzo d’immaginazione per rappresentarsi questo stadio finale: non mancano fenomeni che aiutano a farsene un’idea». E ancora: «Una società che gode senza freni né vergogna del benessere soccombe ai primi colpi che le si assestano: cede al fascino della morte. La Rivoluzione ha trionfato perché il potere era una finzione e il tiranno un fantasma. Del resto una rivoluzione, quale che sia, la spunta solo quando si ritrova alle prese con un ordine irreale. La stessa cosa vale per ogni avvenimento, per ogni grande svolta storica. Alarico non ha conquistato Roma, ma un cadavere. Il solo merito del Barbaro fu di aver avuto fiuto. Anche i Giacobini lo ebbero. La sola differenza rispetto ai Goti, consisteva nell’avere dei princìpi; inaugurarono così un nuovo tipo di umanità. Il retore sanguinario, raffinato e sottile, il barbaro travestito da ideologo». Come si vede, fra il Settecento e i giorni nostri, la musica del tempo non è cambiata…

In quell’antologia, dunque, oltre a raccontare la nascita e lo sviluppo di un genere, il ritratto, che fra il Seicento e la fine del Settecento raggiunge i suoi vertici, Cioran trova anche gli elementi per uno studio su come le civiltà finiscano per un eccesso di morbidità e dove alla vita si sostituisce la sua rappresentazione, la messa in scena della propria vacuità. Nelle Memorie, ancora Saint-Simon fa in proposito un’osservazione capitale quando osserva che, per il regno di Luigi XIV, «causa infallibile di rovine» era stata l’aver azzerato quella «vecchia nobiltà feudale la quale conosceva se stessa e osservava i limiti dell’autorità d’ogni grado, e aveva la volontà e i mezzi di muoversi in difesa dello Stato, perché ognuno era sempre rimasto al suo posto, e non faceva difficoltà per obbedire a quelli ai quali egli riconosceva il diritto di comandare». Avendole sostituito «un costume contrario», l’eguaglianza forzata che per potersi distinguere doveva affidarsi al capriccio del re, l’aristocrazia si era trasformata in nobiltà di corte, ovvero di cortile, dove il gusto vinceva sulla passione, la perfezione sulla verità. Cioran parla di «spiriti esercitati alle piroette, e che andavano a messa con la stessa disposizione con la quale andavano a cena o a caccia. La gravità, indispensabile alla pietà, era sconosciuta nel Settecento». Una società, dunque «incline a una raffinatezza frivola, a un’imponderabilità da acrobati. È curioso osservare come lo stesso Paese abbia potuto produrre Pascal e Voltaire, come abbia sperperato il suo genio in maniera davvero sconcertante, su strade inconciliabili, senza la minima preoccupazione di convergenza e unità. A che pro i Pensieri se poi si approda al Dizionario filosofico?».

Raffinatezza, frivolezza, cortigianeria, rappresentazione, avevano come corollario un’idea di tolleranza, tipica di un’epoca in cui, osserva ancora Cioran, si inveiva intellettualmente contro l’oppressione, ma «la mitezza dei costumi era diventata una realtà. Se la tolleranza è auspicabile e basta a giustificare la pena del vivere, si rivela in compenso come sintomo di debolezza e di dissoluzione. Questa evidenza tragica non poteva imporsi a chi bazzicava quei frequentatori di illusioni che furono gli enciclopedisti; sarebbe diventata lampante in epoche più disincantate, in particolare la nostra. La società del Settecento, ora lo sappiamo, era tollerante perché mancava del vigore e dell’impeto necessari per perseguitare, dunque per conservarsi. La Rivoluzione fu provocata dagli abusi di un regno in cui i privilegi appartenevano a una classe che non credeva più in nulla, nemmeno nei propri privilegi, o piuttosto che vi si aggrappava per automatismo. Senza passioni né accanimento, giacché aveva un’inclinazione dichiarata per le idee che stavano per annientarla. La condiscendenza verso l’avversario è il segno distintivo della debolezza, cioè della tolleranza che è, in ultima analisi, una civetteria d’agonizzanti».

Avendo proclamata sovrana l’intelligenza e bandita l’ingenuità, cioè i sentimenti, quella del Settecento diventa per antonomasia la società della conversazione, di cui la memorialistica presente nell’Antologia, da Madame du Deffand a Madame de Staal-Delaunay, da Grimm a Marmontel dà plastica dimostrazione, e che ha come corollario «la decadenza dell’ammirazione. Tutto è collegato: senza ingenuità, senza pietà, non vi è capacità di ammirare, di considerare gli uomini in se stessi, nella loro realtà originale e unica. L’ammirazione è la prerogativa e la certezza delle anime pure, che non bazzicano i salotti».

L’estremo paradosso di una società del genere, sarà produrre un tipo di letteratura che, nata nel salotto, ne prova però orrore. «Chi vive per la società vive contro di lei. Il ritratto come genere – osserva ancora Cioran – è nato dal risentimento e dall’esasperazione dell’uomo di mondo che ha frequentato troppo i suoi simili per non aborrirli». È la cosiddetta «maledizione del moralista»: quella che impedisce di credere alla nobiltà d’animo perché «equivarrebbe per lui a un rinnegamento. Non è attrezzato per concepire un sentimento esente da falsità, una generosità a tutta prova». Non lo sfiora minimamente «l’idea che vi sia un altrove in cui l’orribile non la fa da padrone». Anche il sonno/sogno della frivolezza genera mostri, e arma la mano del boia che ne attende il risveglio.

Stenio Solinas/ILGIORNALE 3 novembre 2017

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