L’intervista dello scrittore algerino Kamel Daoud a Repubblica

«Scrivere è l’unico stratagemma efficace contro la morte. Gli uomini hanno provato con la preghiera, i farmaci, la magia o l’immobilità, ma credo di essere l’unico ad aver trovato la soluzione: scrivere». Kamel Daoud ha tenuto per anni una rubrica su Le Quotidien d’Oran, punto di riferimento del dibattito intellettuale in Algeria. La pubblicazione del romanzo Il caso Mersault l’ha proiettato verso un successo internazionale. Daoud è diventato uno degli intellettuali più ascoltati e pubblicati in Occidente, con posizioni talvolta controverse, mai allineate. Lo scrittore algerino non vuole essere portavoce di nessuno, né delle vittime del “Sud” o del “mondo cosiddetto arabo”, né delle ragioni del “Nord” o dell’Occidente. Le mie indipendenze (che esce ora in Italia per La nave di Teseo) è una selezione degli articoli pubblicati tra il 2010 e il 2016, in cui si ritrovano molte delle sue posizioni e idee: sulle donne, la sessualità, l’islamismo, il Dio sottratto al dogma. Lo stile è sempre scorretto, aspro, folgorante.

Nel libro c’è anche l’articolo sulle violenze sessuali del Capodanno 2015 a Colonia che lei scrisse per il nostro giornale e che le è valso molte critiche e l’accusa di islamofobia, e le ha fatto decidere di ritirarsi per un periodo dalla scena pubblica. Lo riscriverebbe ancora oggi? «Dalla prima all’ultima riga. Smetterò di dire che esiste un problema sul rapporto con il corpo, il desiderio, la sessualità nel mondo arabo-musulmano solo il giorno in cui le donne potranno uscire la sera, disporre del loro corpo, avere diritto al piacere e all’orgasmo».

È un tema su cui riflette da tempo. Il primo articolo della raccolta, datato 2010, s’intitola “Decolonizzare il corpo”. Cosa significa? «In Algeria, come in altri Paesi cosiddetti arabi, si tramanda un culto del corpo morto, non si fa altro che ricordare i martiri, i caduti delle guerre. Siamo impregnati dell’elogio della morte e del sacrificio, non del desiderio, dell’incontro dei corpi, del piacere sessuale. Inoltre, siamo figli di una cultura religiosa molto specifica che ci priva del nostro corpo, la nudità deve essere nascosta, la sessualità è sempre perversa. L’unico modo di gioire fisicamente è morire e rinascere in paradiso. Sono arrivato ormai alla conclusione che molti dei nostri problemi passano da questo rapporto patologico al corpo».

Non pensa che lo scandalo Weinstein e tutto ciò che sta provocando racconti invece qualcosa sul rapporto con il corpo in Occidente? «Nel mondo arabo-musulmano si mette il velo sul corpo della donna. In Occidente, invece, il corpo è il velo sulla donna. In Occidente non si tratta di liberare il corpo, ma di liberare la donna. E credo che sia in corso un movimento non solo femminista ma universale».

È rimasto sorpreso dalle accuse di violenza sessuale fatte al predicatore musulmano Tariq Ramadan? «L’affaire in sé non m’interessa molto, sarà la giustizia a decidere l’eventuale colpevolezza. Mi colpiscono invece le reazioni da noi, al Sud, e nelle comunità musulmane in Europa: si scivola subito nel complottismo, nella paranoia. Molti musulmani hanno un atteggiamento di rigetto nei confronti della realtà. E c’è anche una straordinaria ingiustizia rispetto a quello che ho subito dopo il mio articolo su Colonia».

Nella strumentalizzazione dello scandalo? «Mi avevano accusato di essenzialismo sulla base di un fatto di cronaca, anche se la mia era una riflessione più ampia e antica. Oggi, le stesse persone utilizzano l’affaire Ramadan per fare quello di cui mi accusavano, ovvero ridurre un tutto, una comunità, a un uomo. Ramadan non rappresenta l’Islam. È scandaloso dirlo. Sono contrario a questa generalizzazione pur non avendo nessuna simpatia per Ramadan, anzi penso che la religione dovrebbe finalmente sbarazzarsi dei predicatori».

È più difficile esprimersi quando si diventa un intellettuale globale?«All’inizio c’è stato un effetto quasi paralizzante. Quando si scrive per un circuito chiuso, si è pressapoco certi che il testo sarà interpretato nel senso desiderato. Nel momento in cui si entra nel circuito internazionale, ogni frase può assumere molte interpretazioni. Un mio commento dal titolo In cosa i musulmani sono utili per l’umanità non è letto allo stesso modo in Algeria e in Europa. È un’equazione difficile da risolvere».

Come scrivere senza essere frainteso o strumentalizzato? «Il dilemma si è posto in egual misura durante la Guerra Fredda, tra chi denunciava lo stalinismo e veniva accusato di fare il gioco dell’imperialismo, e chi faceva l’elogio del comunismo tacendo gli orrori del gulag. Voglio denunciare lo stalinismo e i gulag. Se i miei testi vengono strumentalizzati da qualche estremista, pazienza. L’alternativa sarebbe scegliere un prudente silenzio, darsi per vinti».

Lei non è stato solo oggetto di critiche, ha ricevuto insulti, minacce di morte. «La responsabilità degli intellettuali si è evoluta nell’epoca di Internet con una diffusione che non ha più frontiere geografiche, fusi orari, barriere linguistiche. Dopo aver attraversato un momento di crisi, aver lungamente riflettuto, mi sono detto che — in qualsiasi caso — non sono responsabile di come gli altri mi leggono. E non voglio neppure anticipare quale sarà la reazione ai miei testi. Sono vivo, e voglio continuare ad occuparmi di cose che urtano, feriscono, fanno male proprio perché sono parte della vita».

Anais Ginori, Repubblica 24 novembre 2017

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