Felice Hanukkah: nasce a Ferrara la casa degli ebrei
Nel luogo d’origine dei Finzi-Contini si inaugura il Meis: raccoglierà la storia e la cultura degli israeliti italiani. Il racconto di Paolo Rumiz su Repubblica.
Che c’entra Abramo con le verdure fritte in pastella? C’entra, come i carciofi alla giudìa. Le donne ebree immigrate in Italia cucinavano così. Sono loro che, con gesti d’alchimista, ci hanno insegnato a trasformare zucchine e carote in succulente pepite in padella. Abbiamo dimenticato — o forse ci hanno abituato a rimuovere — quanto di israelita si sia travasato nella cultura e nei costumi della Penisola. Per esempio che, nella Grande guerra, gli Ebrei ebbero, nell’esercito regio, sei volte più decorati rispetto alla media. O che vi furono 200 Ebrei fra i fascisti della marcia su Roma. Oppure che aggettivi come “fasullo” e “sciamannato” sono arrivati qui dal Medio Oriente, dopo affascinanti peripli nel Mediterraneo o nell’Europa centro-settentrionale.
Impareremo molto dal Museo dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis), che si apre oggi a Ferrara con l’accensione della seconda candela di Hanukkah in concomitanza con la festa di Santa Lucia. Scopriremo quanto, fra i poli di Spagna-Sefarad e del nord ashkenazita, l’Italia sia stata centrale nel mondo ebraico; ma anche quanto di ebraico sia rimasto in Italia nei millenni, nonostante il succedersi di dominazioni e un drammatico alternarsi di tenebre e luce. Voluto dal parlamento italiano con legge del 2003 (primo firmatario Dario Franceschini, ferrarese, oggi ministro dei Beni culturali), il Meis aprirà domani al pubblico la prima delle cinque sezioni previste, dedicata alle origini e ai primi mille anni di presenza ebraica in Italia.
Nel 2020, una volta completato, diverrà uno dei più grandi contenitori culturali della nazione. Ferrara dunque: città dove l’ebraismo è nell’aria, nei mattoni, nei canali, nei vicoli e nelle stesse brume padane. Ferrara dei Finzi-Contini, dove alla fine del Quattrocento gli Estensi danno il benvenuto agli Ebrei espulsi dalla penisola iberica e dal Sud Italia in nome della “limpieza” razziale e religiosa. Ferrara maledetta dal Papa per la sua apertura ai Giudei, e dove Ariosto è subito tradotto in ebraico; la città di Isacco Lampronti, immenso talmudista, di Theodor Herzl, padre del sionismo moderno, di Donna Garcia Ha Nasi, imprenditrice dalla vita leggendaria fra Spagna, Italia, Turchia e Terrasanta. In questo mondo dove le pietre parlano, ecco, all’interno delle vecchie mura, l’edificio dell’ex carcere, completamente ripensato, che diventa polo di cultura. «Non c’è niente di più ebraico che aprire alla conoscenza un luogo chiuso», sorride la direttrice Simonetta Della Seta. «Quando arrivai qui la prima volta, contai le celle, vidi che erano 32 e vi lessi un segno. Per la cabalà 32 è un numero speciale, quello dei sentieri dell’albero della vita e delle vie della sapienza suggerite dall’alfabeto ebraico. È stata anche questa coincidenza a farmi accettare una sfida entusiasmante». Un lavoro complesso, ma maledettamente necessario, specialmente ora che il buio del pregiudizio sta facendosi nuovamente strada in Europa, un lavoro portato avanti col supporto di tre curatori di prima grandezza: Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e Davide Jalla. Una mobilitazione a tutto campo. Entri e, in 24 minuti di film, hai la storia d’Italia letta con gli occhi degli Ebrei. Si parte dalla distruzione del Tempio per mano dell’esercito imperiale e la conseguente deportazione in Italia della classe dirigente di Gerusalemme, ridotta in schiavitù ma presto riscattata dagli Ebrei romani. E così avanti, fino agli anni della grande fioritura tra Settimo e Nono secolo quando il popolo del libro, scrive Jalla, ritrova l’uso dell’ebraico ed esprime grandi testi letterari e scientifici; e ancora oltre, fino alle soglie del regno di Federico di Svevia, quando nel sud gli Ebrei diverranno il dieci per cento della popolazione e si troveranno a fare da ponte fra antico e nuovo, fra l’Islam, Bisanzio e il mondo cristiano. Un lievito che aiuterà ad amalgamare un Mezzogiorno mai così vivo e plurale, abitato da Longobardi, Svevi, Normanni.
Prosegui a zigzag tra celle restituite allo spazio e alla luce, e rivedi con occhi nuovi ciò che credevi di avere sempre saputo. Impari che il Colosseo è stato eretto con l’oro ricavato dal bottino delle guerre giudaiche, che le colonne tortili di San Pietro hanno avuto per modello quelle descritte nella Torah, o che il primo Golem non è nato affatto nella brumosa Praga ma secoli prima nel sole della Puglia, per mano di alchimisti della stessa stirpe. Scopri che il baccalà, il pesce marinato in agrodolce e la zucca caramellata al forno sono piatti di importazione ebraica. E se guardi agli ultimi due secoli, ti addentri in altri labirinti del non detto per ripetere che l’Italia ha avuto un primo ministro ebreo, Luigi Luzzatti, e che ebreo era pure il segretario del conte di Cavour, Isacco Artom.
Per nessun altro popolo storia e geografia coincidono in modo così perfetto, ed ecco che il viaggio continua tra mappe e schermi parlanti sull’epopea di un popolo errante in cerca di terre dove vivere. Ecco la statua originale di Tito portata dal museo archeologico di Napoli; ecco le monete con la scritta Judea capta a sigillo delle guerre contro gli Ebrei ribelli di Israele; ecco la simulazione fortemente emozionale dell’incendio del Tempio. Oltre, un arco di Tito su scala uno a due e la riproduzione in gesso del bassorilievo che lo abita, dedicato al trionfo dell’esercito in marcia col leggendario candelabro a sette braccia. Una sottomissione dura, che però non diventa mai antisemitismo, prova ne sia che Roma, in quegli stessi anni, ha già quattordici sinagoghe.
E ancora una simulazione perfetta delle catacombe ebraiche di Villa Torlonia e del Cubicolo dei Pegasi, quest’ultimo affrescato con figure umane a testimonianza dell’influsso latino nei costumi degli Ebrei di Roma. Estetica latina e religiosità orientale si influenzano a vicenda per secoli, facendo degli Ebrei italiani qualcosa di diverso rispetto ad ashkenaziti e sefarditi.
Un mondo articolato in centinaia di comunità, meticolosamente narrate dal viaggiatore ebreo-spagnolo Beniamino Da Tudela, che nel Dodicesimo secolo attraversa a piedi la penisola battezzata “I Tel Yah”, isola della rugiada divina. E che dire della Genizah del Cairo, da poco ritrovata, dalla quale emergono spartiti che assegnano all’Italia la primogenitura della musica ebraica. Ora tutto questo torna alla luce, in un percorso che aiuta ad andare oltre la schiacciante memoria della Shoah. E c’è chi mai avrebbe immaginato che un simile sogno potesse avverarsi: Corrado De Benedetti, classe 1927, tuttora membro attivo di un kibbutz israeliano, che in quella prigione fu rinchiuso dai fascisti nel ’43 in attesa di essere portato in Germania. «È stato qui — dice dopo aver ritrovato la sua cella — che ho cominciato a pensare di costruire una società più giusta, fondata su valori democratici ed ebraici».
Paolo Rumiz, Repubblica 13 dicembre 2017