Sono queste le generazioni del grande fallimento?
Che cosa sta succedendo a questa generazione di ragazzi senza desideri, senza motivazioni, senza sogni? Sembra che chiedano soltanto una permanente interconnessione con un mondo visto da una sorta di angolo di sicurezza imbottito di bambagia. E i genitori finiscono per essere complici di questo stile di vita, che poi tanto stile non ha. Ci si occupa dei figli proteggendoli dal confronto con il mondo, armandoli di capi di abbigliamento firmati, che fanno status, e di numerosi oggetti e gadget che fanno tendenza: mai che si debba mandare un figlio a scuola con zaino e astuccio di una marca inadeguata o con un paio di pantaloni che costino meno di novanta euro. Poi poco importa se il papà lavora fino a spezzarsi la schiena per portare a casa i soldi che servono solo ad apparire e poco ad essere.
Negli adulti è diventata debole la capacità di trasmettere esperienze di vita e di costruire reti di relazioni non solo affettive ma anche valoriali. Esistono bambini di otto, dieci anni che hanno già due cellulari ed hanno accesso a svariate tecnologie con leggerezza e poco controllo. Perché avere un certo cellulare, il tablet e quant’altro fa status. La vita va esperita, non preordinata e confezionata sulla tastiera di un tablet o di un cellulare di ultimo grido. Ci si deve scontrare con la miseria del mondo e con i propri limiti. Si deve uscire di casa, viaggiare con pochi mezzi e imparare a vivere. Il bambino, il giovane, deve fare i conti con le proprie insicurezze, con i propri errori, le delusioni, con la voglia di non studiare che ha sempre delle conseguenze, che “deve” avere delle conseguenze. I bambini e i giovani devono scontrarsi con tutti i “no” detti da genitori che lottano affinché i propri figli crescano davvero. Invece abbiamo schiere di genitori che non osano contraddire i figli, che non sanno farlo, o forse, peggio ancora, non possono farlo. Genitori sgomenti che riempiono il vuoto affettivo, la mancanza di senso, gli ampi spazi creati dal silenzio e dall’assenza di comunicazione e reciprocità, con soldi e averi per dare una sorta di connotato ad una relazione che manca di una spina dorsale intorno alla quale esistere.
Un vuoto generazionale, in cui i giovani non si confrontano più con gli adulti e il passato, che mancano di mappe di riferimento. Giovani ai quali manca il coraggio di realizzarsi sfidando i fallimenti e le inevitabili cadute di autostima. La responsabilità è e resta sostanzialmente degli adulti che nelle varie fasi della vita dei figli, dal momento in cui iniziano da poco più che neonati ad esplorare il mondo, fanno in modo che tutto debba essere filtrato attraverso una sorta di campana protettiva, prima contro i bernoccoli, poi contro le emozioni dissestanti. Il risultato è che abbiamo creato una generazione di giovani che ripongono la loro lealtà in falsi miti, che si aggregano per ubriacarsi o per consumare droghe, nel migliore dei casi leggere. Giovani che riprendono con il cellulare qualsiasi evento, luttuoso drammatico o violento che sia, con dissociato distacco. E non c’è posto in questo scenario per le idee, le vocazioni, le scelte autonome fuori dal branco, le scelte che ti rendono libero, che ti fanno crescere, che ti restituiscono una identità sempre più forte contro le paure e la solitudine. L’ultima chicca, lungo la frontiera del fallimento, è che la scuola, con il decreto della Buona Scuola, non boccia più. Forse per combattere la dispersione scolastica, forse per alleggerire il peso economico che ogni studente bocciato ha sul bilancio… di fatto andiamo ad imitare i Paesi del Nord, quali Finlandia, Danimarca, Svezia, Norvegia, dove sembra che il sistema scolastico sia uno dei migliori al mondo e dove, punto non trascurabile che allontana questi Paesi dall’Italia, i ragazzi sono accompagnati e monitorati nei nove anni di formazione primaria, dai sette ai sedici anni, in un percorso di recupero delle lacune e di rinforzo delle competenze.
Non bocciare nella nostra scuola significa abbassare inesorabilmente la soglia di preparazione degli studenti. Significa anche, però, creare un futuro in cui le generazioni non lotteranno per raggiungere gli scopi, non si affermeranno combattendo i fantasmi personali e la paura di fallire, non sperimenteranno l’errore e l’incapacità, non avranno interesse verso niente perché avranno tutto, un tutto foraggiato da adulti iperprotettivi, onnipresenti e puntuali nell’assecondare ogni singola richiesta. Significa creare una generazione di persone deboli, incapaci di fare qualcosa per sé stesse e autolesioniste. Non può non sfuggire ad un occhio esperto e lungimirante quanto questo sia il corollario del marciume e della decadenza.
(Nadia Loreti/com.unica, 14 dicembre 2017)