Ahmadreza Djalali: la corte suprema iraniana conferma la condanna a morte
Gli appelli di Amnesty International e della moglie del ricercatore. Da più parti si sollecita l’intervento dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, Federica Mogherini.
Più di un mese fa su Comunica abbiamo riportato la notizia della condanna a morte inflitta dal brutale regime di Teheran a Ahmadreza Djalali, ricercatore nel campo della medicina di emergenza (qui il link). Oggi purtroppo la sua situazione si è aggravata: la Corte suprema iraniana ha infatti confermato la condanna dopo un processo segreto e celebrato senza aver fornito ai suoi legali la possibilità di presentare istanza e produrre documenti in difesa di Djalali.
Siamo pertanto di fronte non solo alla negazione del più elementare diritto a un processo regolare, ma anche in presenza di un assoluto disprezzo per il diritto alla vita per Ahmadreza Djalali. “È spaventoso constatare che le autorità iraniane hanno deliberatamente negato allo scienziato il diritto a un esame significativo della sua detenzione e della sia condanna” ha dichiarato Magdalena Mughrabi, Vice direttrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.
Djalali, che ha insegnato all’università in Belgio, Italia e Svezia, è stato arrestato dai servizi segreti mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz con l’accusa di spionaggio per conto di “un governo ostile” (Israele). Come fa notare Amnesty sul suo sito, si è visto ricusare per due volte un avvocato di sua scelta. Le stesse autorità iraniane hanno esercitato forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui avrebbe dovuto ammettere la sua “colpa”. Di fronte al suo rifiuto è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi. Domenica scorsa la tv iraniana ha trasmesso un servizio in cui Djalali sembrava ammettere le sue responsabilità: mentre lavorava in Europa degli individui lo avrebbero reclutato per rivelare informazioni sui piani nucleari iraniani. Ma in un video successivo registrato lunedì il ricercatore ha chiarito che quella confessione gli è stata estorta: “il video è stato registrato quando mi trovavo in pessime condizioni psicologiche”, dopo aver trascorso un periodo in isolamento e sotto effetto di psicofarmaci.
Oltre a quella di Amnesty International sono numerose le voci che in Italia si sono levate in favore del ricercatore iraniano, a cominciare da quella di organizzazioni come “Nessuno tocchi Caino” e politici come i senatori del Pd Luigi Manconi, Elena Ferrara ed Elena Cattaneo. Proprio quest’ultima si è rivolta, in una lettera pubblicata su Repubblica, all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Federica Mogherini, affinché, in forza di quello spazio di libertà che l’Europa rappresenta nel mondo, si rechi di persona in Iran, ad accertare la sorte di Djalali, esigendo quella trasparenza e quel rispetto dei diritti umani fondamentali che finora sono mancati. “Valutare di sospendere la partecipazione del nostro Paese ad accordi che facilitano l’interscambio accademico tra Italia e Iran sarebbe doveroso – sottolinea Cattaneo: “il ripristino dei diritti umani e civili di tutti i ‘Djalali’ dev’essere una condizione necessaria perché l’Italia, insieme ai Paesi coinvolti, prosegua il rafforzamento delle relazioni con l’Iran.”
Chi sollecita un intervento della Mogherini è la stessa moglie di Djalali, Vida Mehrannia, iraniana di 43 anni, che vediamo nel toccante video pubblicato in questa pagina. “Federica Mogherini, viste le sue buone relazioni diplomatiche con il governo iraniano e con il ministro degli Esteri Zarif, può essere decisiva” – ha dichiarato Vida in un’intervista pubblicata su Repubblica “I nostri avvocati – ha aggiunto – proveranno fino all’ultimo a salvare Ahmadreza con un ricorso alla decisione della Corte Suprema affinché il caso venga riesaminato. Ma le speranze sono pochissime e non basterà: mio marito è in serio pericolo. Spero che questa volta Mogherini dia un segnale perché forse è l’ultima chiamata per mio marito”.
Per chi volesse condividerlo e firmarlo qui il link all’appello di Amnesty International.
(Sebastiano Catte, com.unica 20 dicembre 2017)