La globalizzazione del nostro malcontento
L’analisi del premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz per Project Syndicate
NEW YORK – Quindici anni fa, ho pubblicato Globalization and Its Discontents, un libro che cercava di spiegare perché c’era così tanta insoddisfazione rispetto alla globalizzazione tra i paesi in via di sviluppo. Semplicemente, molti credevano che il sistema era “manipolato” contro di loro e che gli accordi commerciali globali erano scelti appositamente per essere particolarmente ingiusti.
Ora, il malcontento in merito alla globalizzazione ha alimentato un’ondata di populismo negli Stati Uniti e in altre economie avanzate, guidata da politici che affermano che il sistema è ingiusto nei confronti dei loro paesi. Negli Stati Uniti, il Presidente Donald Trump insiste che i negoziatori commerciali dell’America erano truffati da quelli provenienti da Messico e Cina.
Quindi come potrebbe essere oltraggiato, quasi ovunque, qualcosa che avrebbe dovuto portare benefici a tutti, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo? Come può un accordo commerciale essere ingiusto per tutte le parti?
Nei paesi in via di sviluppo, le affermazioni di Trump – come Trump stesso – sono ridicole. Gli Usa in sostanza hanno scritto le regole e creato le istituzioni della globalizzazione. In alcune di queste istituzioni – ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale – gli Usa hanno ancora il potere di veto, nonostante il ruolo ridotto dell’America nell’economia globale (un ruolo che Trump sembra determinato a diminuire ancora).
A chi come me ha assistito alle negoziazioni commerciali da vicino per oltre un quarto di secolo, è chiaro che i negoziatori commerciali americani hanno avuto la maggior parte di ciò che volevano. Il problema era ciò che volevano. La loro agenda era stabilita dalle multinazionali. Era un’agenda scritta da e per grosse multinazionali, a spese di lavoratori e cittadini ordinari in ogni parte del mondo.
In realtà, spesso sembra che i lavoratori, che hanno assistito a un calo dei loro salari e alla scomparsa dei posti di lavoro, rappresentano solo dei danni collaterali – vittime innocenti ma inevitabili nella marcia inesorabile del progresso economico. Ma c’è un’altra interpretazione di ciò che è accaduto: uno degli obiettivi della globalizzazione era indebolire il potere di contrattazione dei lavoratori. Ciò che le multinazionali volevano era una manodopera più economica.
Questa interpretazione aiuta a spiegare alcuni aspetti sconcertanti degli accordi commerciali. Perché, ad esempio, i paesi avanzati hanno dato via uno dei loro maggiori vantaggi, lo stato di diritto? In realtà, le disposizioni presenti negli accordi commerciali più recenti danno agli investitori esteri più diritti di quanti ne abbiano gli investitori negli Usa. Sono retribuiti, ad esempio, se il governo dovesse adottare un regolamento che colpisce il loro utile, non importa quanto sia vantaggioso il regolamento o quanto grande sia il danno causato dalla multinazionale in sua assenza.
Ci sono tre risposte al malcontento generale relative alla globalizzazione. La prima – chiamiamola la strategia di Las Vegas – è raddoppiare la scommessa sulla globalizzazione come è stata gestita nell’ultimo quarto di secolo. Questa scommessa, come tutte le scommesse sui fallimenti politici (come l’effetto a cascata), è basata sulla speranza che in qualche modo avrà successo in futuro.
La seconda risposta è il Trumpismo: tagliarsi fuori dalla globalizzazione, nella speranza che così facendo si possa tornare indietro nel tempo. Ma il protezionismo non funzionerà. Globalmente, i lavori manifatturieri sono in declino, semplicemente perché la crescita della produttività ha superato la crescita della domanda.
Anche se la produzione dovesse tornare, i lavori non torneranno. La tecnologia avanzata nel settore manifatturiero, tra cui i robot, implica che i pochi lavori creati richiederanno competenze sempre maggiori e saranno situati in diversi luoghi rispetto ai posti di lavoro persi. Come il raddoppio, tale approccio è destinato a fallire, aumentando ulteriormente il malcontento avvertito da chi è rimasto indietro.
Trump fallirà anche nel suo dichiarato obiettivo di ridurre il deficit commerciale, che è determinato dalla disparità tra risparmi nazionali e investimenti. Ora che i repubblicani hanno ottenuto ciò che volevano e hanno emanato un taglio fiscale per i miliardari, i risparmi nazionali caleranno e il deficit commerciale salirà, a causa di un aumento del valore del dollaro. (I deficit fiscali e i deficit commerciali normalmente si muovono insieme in modo così stretto che sono chiamati deficit “gemelli”). A Trump potrebbe non piacere, ma dal momento che lo sta scoprendo lentamente, ci sono alcune cose che anche la persona più potente al mondo non riesce a controllare.
C’è un terzo approccio: la protezione sociale senza protezionismo, il tipo di approccio che adottano i piccoli paesi nordici. Sapevano che in quanto paesi piccoli dovevano restare aperti. Ma sapevano anche che il fatto di restare aperti avrebbe esposto i lavoratori al rischio. Quindi, dovevano avere un contratto sociale che aiutasse i lavoratori a passare dai vecchi lavori ai nuovi e a offrire aiuto durante questo passaggio.
I paesi nordici sono società profondamente democratiche, quindi sapevano che se la maggior parte dei lavoratori non riteneva la globalizzazione un vantaggio per loro, non sarebbe stata sostenuta. E i ricchi in questi paesi riconoscevano che se la globalizzazione funzionasse a dovere, ci sarebbero abbastanza benefici.
Il capitalismo americano negli ultimi anni è stato segnato da un’avidità sfrenata e la crisi finanziaria del 2008 ne ha dato ampiamente conferma. Ma, come hanno mostrato alcuni paesi, un’economia di mercato può assumere forme che mitigano gli eccessi sia del capitalismo che della globalizzazione, e determinano una crescita più sostenibile e un’elevata qualità della vita.
Possiamo capire da tali successi cosa fare, proprio come possiamo capire dagli errori del passato cosa non fare. Come è diventato chiaro, se non gestiamo la globalizzazione in modo che possa andare a vantaggio di tutti, la reazione opposta – i Nuovi Malcontenti nel Nord e i Vecchi Malcontenti nel Sud – è a rischio di intensificazione.
Joseph E. Stiglitz, project-syndicate dicembre 2017
*Premio Nobel per l’Economia nel 2001, insegna Politica Economica alla Columbia University ed è capo economista presso il Roosevelt Institute.