Un’analisi in controtendenza dell’economista dell’Università di Berkeley Barry Eichengreen: non c’è alcuna distruzione del lavoro per effetto del progresso tecnologico.

Robot, apprendimento automatico e intelligenza artificiale promettono di cambiare radicalmente la natura del lavoro, e questo è un fatto che ormai tutti sanno, o almeno credono di sapere. Quello che, in particolare, la gente crede di sapere sono due cose. La prima è che un numero senza precedenti di posti di lavoro è a rischio: Forrester stima che, nel 2018, l’automazione basata sull’intelligenza artificiale eliminerà il 9% dei posti di lavoro negli Stati Uniti recita un titolo, e McKinsey: un terzo dei lavoratori americani potrebbe restare senza lavoro entro il 2030 per colpa dell’automazione, fa eco un altro.

Affermazioni come queste danno l’impressione che il progresso tecnologico e la perdita di posti di lavoro siano in rapida accelerazione. In realtà, questi trend non sono sostanziati da alcuna prova. La produttività totale dei fattori, ovvero la misura che meglio sintetizza il ritmo del cambiamento tecnologico, è in fase di stagnazione dal 2005 tanto negli Stati Uniti quanto nelle economie più avanzate.

Inoltre, come l’economista Timothy Taylor ha sottolineato di recente, a partire dagli anni Ottanta il ritmo del cambiamento della struttura occupazionale, cioè il valore assoluto dei posti di lavoro acquisiti nelle occupazioni in crescita e di quelli persi nelle occupazioni in declino, ha registrato un rallentamento, non un’accelerazione. Questo non vuol dire negare che la struttura occupazionale stia cambiando, bensì mettere in discussione l’opinione diffusa che il cambiamento stia avvenendo a un ritmo sempre più rapido.

La seconda cosa che tutti pensano di sapere è che i posti di lavoro prima considerati sicuri oggi sono a rischio. Un tempo, era possibile affermare che i robot avrebbero soppiantato i lavoratori impegnati in attività di routine, ma non certo quelli con un elevato livello di specializzazione e d’istruzione, come i medici, gli avvocati e, oserei dire, i professori. In particolare, si diceva che le macchine non sono in grado di svolgere mansioni che richiedono una buona dose di empatia, compassione, intuizione, interazione personale e comunicazione.

Oggi, però, queste distinzioni stanno venendo meno. Alexa, l’assistente digitale di Amazon, è in grado di comunicare. Il crowdsourcing, insieme alla storia digitale delle persone, può intuire i comportamenti di acquisto. L’intelligenza artificiale può essere utilizzata per leggere radiografie e diagnosticare patologie mediche. Di conseguenza, tutti i mestieri, persino quelli del medico, dell’avvocato e del professore, sono soggetti a una trasformazione.

Ma trasformarsi non significa diventare a rischio. Certo, le macchine sono già più efficienti dei collaboratori di uno studio legale nella ricerca di precedenti, ma un avvocato capace di entrare in sintonia con il proprio cliente continua ad avere un ruolo fondamentale quando si tratta di consigliare una persona alle prese con un divorzio difficile se negoziare, mediare, o finire in tribunale. Allo stesso modo, la conoscenza della personalità dei soggetti di una causa civile o di un procedimento penale da parte di un avvocato può essere coadiuvata da un ampio volume di dati e dall’analisi statistica al momento del vaglio della giuria. Il lavoro sta cambiando, non scomparendo.

Queste osservazioni indicano ciò che sta realmente accadendo nel mercato del lavoro. Non è che gli infermieri vengano sostituiti da robot specializzati, bensì è ciò che gli infermieri fanno a essere ridefinito. E quello che fanno continuerà a ridefinirsi a mano a mano che le capacità di questi robot evolveranno dall’aiutare i pazienti a scendere dal letto all’effettuare sedute di terapia fisica, fino al fornire supporto emotivo ai depressi e ai disabili.

Per certi versi, questa è una buona notizia per chi è preoccupato per le prospettive dei lavoratori, perché continuerà a esserci richiesta di lavoratori impegnati nei mestieri esistenti. Non tutti gli infermieri dovranno diventare ingegneri informatici. Le conoscenze acquisite sul campo – come la capacità di interagire con i pazienti e riconoscere i loro stati d’animo e bisogni – continueranno a essere rilevanti e apprezzate, e questo bagaglio di esperienza verrà utilizzato per guidare e collaborare con i colleghi robotici.

Pertanto, la futura trasformazione tecnologica non comporterà cambiamenti in ambito occupazionale paragonabili a quelli della Rivoluzione Industriale, che determinò una totale ridistribuzione del lavoro tra i settori agricolo e industriale. Dopotutto, la stragrande maggioranza degli americani lavora già nel settore dei servizi. Sarà, tuttavia, più importante che mai per le persone di tutte le età aggiornare le proprie competenze e non smettere di formarsi, dal momento che le loro attività continueranno a essere ridefinite dalla tecnologia.

In paesi come la Germania, i lavoratori appartenenti a settori diversi ricevono una formazione iniziale come apprendisti, che poi prosegue nell’arco di tutta la vita lavorativa. Le aziende investono e reinvestono nei propri dipendenti perché questi ultimi possono pretenderlo, essendo rappresentati nei consigli di amministrazionein base alla Legge di Cogestione del 1951. Le associazioni imprenditoriali collaborano con dei sindacati forti per organizzare e gestire programmi di formazione a livello settoriale. Questi progetti funzionano in parte perché il governo federale definisce gli standard della formazione e formula piani di studio uniformi per i tirocinanti.

Negli Stati Uniti, la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione, sindacati forti e una regolamentazione governativa della formazione del settore privato non fanno parte del quadro istituzionale vigente. Di conseguenza, le aziende trattano i propri dipendenti come lavoratori usa e getta, piuttosto che investire in essi, e il governo non fa nulla al riguardo.

Ecco, allora, un’idea alternativa. Invece di una “riforma fiscale” che consenta alle imprese di detrarre le spese in conto capitale, perché non concedere alle stesse dei crediti d’imposta a copertura dei costi relativi all’educazione permanente dei propri dipendenti?

Barry Eichengreen*, Project-syndicate dicembre 2017

*Barry Eichengreen è professore di Economia all’Università della California di Berkeley ed è stato in passato consulente presso il Fondo Monetario Internazionale. Tra le sue opere ricordiamo La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida dell’innovazione (Il Saggiatore).

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