Una tortura kafkiana, così la mia Turchia ritorna al Medioevo
L’analisi della scrittrice turca Asli Erdogan sulla soppressione dei diritti umani fondamentali nel regime di Ankara (da Repubblica)
Mi mettono veramente paura gli sviluppi sulla sentenza a vita decisa l’altro giorno contro i sei giornalisti turchi condannati a Istanbul. Nelle ultime due udienze il giudice è stato molto rude e offensivo, quando si è rivolto ad Ahmet Altan, uno dei maggiori intellettuali che abbiamo, con l’appellativo di « prigioniero » . E mentre lui gli rispondeva, quello ha replicato: « Ti chiamo come voglio». Questo rivela molto di quel che sta accadendo in Turchia. Se ricordiamo le accuse fatte contro di loro, l’avere cioè inviato «messaggi subliminali» per spingere i telespettatori di un programma televisivo a partecipare al «sovvertimento dell’ordine costituzionale» il giorno prima del golpe, tutto questo sembra un gioco. Su alcuni giornali turchi ci sono persino le vignette su quanto aberrante sia la ragione dell’accusa. Bisogna immaginare che Ahmet Altan, cioè uno dei tre più grandi scrittori di questo Paese assieme a Orhan Pamuk e Murathan Mungan, la sera prima del colpo di Stato mandi dei messaggi sovversivi attraverso la tv. Con me hanno fatto lo stesso, e così con altri.
L’accusa che mi ha costretto a più di quattro mesi di prigione era ridicola: far parte del consiglio di amministrazione di un giornale, Ozgur Gundem (molto attento alla questione curda, ndr), quando lo ero già da cinque anni in modo del tutto legale. Lo hanno fatto diventare un crimine grave. Il primo del genere, nella storia, quando si sa benissimo che i consiglieri di amministrazione non sono legalmente responsabili. Un giorno hanno arrestato me, Ahmet Altan ha scritto sul mio caso, e il giorno dopo è toccato a lui. Probabilmente era un loro piano: prendere due eminenti scrittori. E credetemi, non è facile essere giornalisti e scrittori nella Turchia di oggi. Tantomeno narratori tradotti in una ventina di lingue, senza guardare al fatto che nel mondo ci considerano più o meno importanti. Sahin Alpay, anch’egli arrestato dopo il golpe, è un grande intellettuale. Nazli Ilicak è una donna le cui idee io condivido pochissimo, ma è stata comunque una parlamentare e una giornalista con una storia alle spalle. Enis Berberoglu, ex opinionista e poi numero due del Partito repubblicano del popolo, è anch’egli una figura prominente. Con loro giocano, li condannano a vita, e poi magari fra uno o due anni li liberano. Ecco perché dico che la liberazione, il rilascio di una persona che ha sperimentato il carcere, non è nulla rispetto a quello che ha patito.
Siamo tornati nel Medioevo? Un poliziotto che ha sparato a 4 persone in una città curda oggi è libero di circolare senza problemi, mentre Altan, io e molti altri, siamo offesi e messi in cella. Se io fossi uno scrittore francese, mi farebbero questo a Parigi? Non credo proprio. Il problema è che la letteratura, qui, non è certo considerata. E i primi da biasimare siamo proprio noi. La società turca è così. Ci sentiamo inferiori rispetto all’Occidente. E la politica considera la letteratura in questo modo: loro pensano alla cosiddetta “Ottomania”, fanno mostre sulle miniature, vogliono sviluppare nell’arte una nuova ideologia. Recep Tayyip Erdogan poco tempo fa ha detto: «Questo è l’ultimo luogo che non possiamo controllare».
Distribuiscono i soldi ai loro artisti, ai loro scrittori, assegnano le loro borse di studio, ma non creano mai nulla. E non capiscono un concetto fondamentale: che l’arte ha bisogno di libertà. Essere dunque messi in prigione è un provvedimento inaudito, kafkiano, la tortura più grande. Sbattuti dentro, e non sapere perché, e non sapere se esci e quando. Come nel Medioevo. Una tortura infinita. Io l’ho provata. Non sai se esci domani, o fra dieci anni, oppure mai. Una crudeltà. Ahmet Altan, il più noto dei sei condannati, non solo è un grande scrittore, ma il migliore opinionista degli ultimi due decenni. Qualche volta non sono d’accordo con le sue idee, ma lo rispetto molto, e mi rivolto all’idea che sia stato messo in prigione e condannato. È puro orrore. Deniz Yucel, il corrispondente di Die Welt rilasciato dopo un anno di carcere, ha detto la stessa identica frase che ho pronunciato quando sono stata liberata: «Ancora non so perché sono stato arrestato. E ancora non so perché sono stato liberato». Forse tutti noi proviamo la medesima sensazione. Ma perché loro mostrano la generosità di liberare alcuni, mentre altri no? Offrono generosità, e poi la prossima volta ti condannano. Così la libertà non è più tale, perché può cambiare ad ogni momento. Ti rilasciano, e poche ore dopo — mentre assapori la libertà — un altro tribunale ti riarresta. Quante volte è già capitato. Per Deniz Yucel ci sono stati negoziati a porte chiuse in ogni momento fra Germania e Turchia. I canali diplomatici sono sempre impegnati per tirare qualcuno fuori, e qualche volta questo succede. Forse non è molto etico, ma è normale, quale altro modo c’è? Anch’io lo farei. Ma coloro che sono tornati fuori in questo modo poi si chiedono: è un peccato che io non ho commesso, che cosa hanno trattato per tirarmi fuori? Ed è una sensazione orribile.
Questa tortura contro di noi è così grande che è una sorta di Medioevo. Avete presente Esmeralda, la protagonista del romanzo Notre- Dame de Paris di Victor Hugo? Mi sento molto come lei: accusata di avere ucciso un uomo, mentre l’assassino è un altro. Bene, abbiamo sperimentato meno giustizia di Esmeralda, io, Ahmet, Nazli e gli altri. E poi, quest’ultima, l’ho già detto, non condivido per nulla le sue posizioni, ma accidenti, è una donna di 73 anni, e ora rischia di finire la sua vita in carcere. Nemmeno se hai ucciso ti condannano a questa pena. Come la mettiamo con quel poliziotto nel villaggio curdo? Ecco, la Turchia oggi dice questo: il diritto di uccidere è più forte del diritto di critica da parte di uno scrittore o di un giornalista. Allora questa Turchia deve essere messa sotto giudizio internazionale per quei processi. Il Tribunale per i diritti umani deve intervenire. E dire che cosa sta succedendo in Turchia. Perché questi processi sono completamente fuori dalla legge.
Asli Erdogan, Repubblica 19 febbraio 2018