Il virus sterminò almeno 50 milioni di persone e provocò un’ondata di terrore che cambiò la società e la cultura.

I traumi più gravi sono quelli che il nostro cervello ci spinge a dimenticare. È una forma di auto protezione. E probabilmente succede anche a livello collettivo. Certamente è accaduto con l’epidemia di influenza passata alla storia come «spagnola» che, tra il 1918 e il 1920, flagellò l’intero pianeta. Di sicuro uccise almeno 50 milioni di persone, secondo alcune stime addirittura 100 milioni. Anche optando per le stime più basse, il virus influenzale che iniziò a diffondersi, nonostante il nome, dagli Stati Uniti è stato senza dubbio responsabile della pandemia più letale della storia. E per quanto la storiografia abbia speso fiumi di inchiostro sulla Prima e sulla Seconda guerra mondiale, è quasi certo che, come danno globale all’umanità, la «spagnola» superi ampiamente entrambe.

Eppure nei libri di storia è comparsa, per decenni, soltanto di sfuggita. Difficile capirne il motivo. Forse perché i morti non portavano necessariamente un’uniforme e nel loro morire non c’era nulla di eroico. Forse perché, colpendo in tutto il mondo, non si capì esattamente quanti fossero i morti: c’erano località in cui il virus si comportava come una normale influenza di stagione e altre in cui la popolazione veniva annientata. Forse semplicemente perché la sua casualità e il senso di impotenza che provocava erano troppo stranianti e spaesanti per portarne davvero memoria.

Del resto basta la descrizione dei sintomi fatta dai medici dell’epoca a far accapponare la pelle. Un contagio su cui si brancolava nel buio, una febbre improvvisa che spesso causava un violento delirio (molti malati morirono gettandosi dalla finestra). Poi il corpo che iniziava a riempirsi di macchie violacee… Se le macchie cominciavano a diventare nere la morte era quasi certa. Capitò così anche al poeta Apollinaire e al grande pittore Eghon Schiele (che morì a 28 anni, tre giorni dopo la moglie, che era incinta).

Ora però, a un secolo dall’esplosione della pandemia, arriva un libro, scritto dalla giornalista scientifica Laura Spinney, che indaga in ogni dettaglio questo dramma: 1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo (Marsilio, pagg. 348, euro 19). Laura Spinney parte dal «paziente zero», il soldato Albert Gitchell che si presentò all’infermeria della base militare di Camp Funston in Kansas, rapidamente seguito da un altro centinaio di commilitoni. E poi racconta la diffusione del virus in tutto il globo. Largo spazio è dato alla lotta dei medici contro un morbo di cui potevano capire ben poco. Presi dal panico reagirono, per usare le parole della Spinney, «svuotandogli contro l’armadietto dei medicinali», da quelli convenzionali a quelli omeopatici, ai rimedi da stregoni. Purtroppo era un armadietto tragicamente vuoto: gli antibiotici non erano stati ancora inventati e i retrovirali men che meno. A volte le cure peggiorarono addirittura la situazione, soprattutto quando veri e propri ciarlatani cercarono di approfittare della situazione tragica.

Uno degli altri grandi temi preso in esame nel dettaglio sono le strategie utilizzate dagli Stati, soprattutto nel controllo dei confini. Sul finire della Prima Guerra Mondiale, per l’Europa e gli Usa non vi fu scampo. I militari nelle trincee vennero travolti dal virus e si trasformarono in vettori che lo diffusero in ogni città e villaggio, al momento del loro rientro a casa. L’unica grande nazione capace di organizzare un vero contenimento del virus fu l’Australia, aiutata dai grandi spazi oceanici e da una politica oculata. L’unico errore fu che gli australiani rinunciarono all’isolamento troppo presto. Un errore da 12mila morti (comunque poca cosa rispetto ad altre nazioni). Nel proliferare del virus ebbe il suo peso anche la censura militare che impedì la corretta circolazione delle notizie, quindi anche l’adeguata prevenzione. L’influenza prese il nome di «spagnola» proprio perché i giornali spagnoli furono gli unici a parlarne apertamente. Nel clima di sospetto ci fu anche chi teorizzò che in realtà l’influenza fosse un’arma biologica prodotta dagli imperi centrali. In realtà il virus non risparmiò nessuno.

La Spinney è anche molto brava a raccontare, in parallelo alla grande storia, la microstoria dei singoli malati, a partire da diari e racconti dell’epoca. L’influenza colpì soprattutto persone tra i venti e trent’anni, il fiore di una generazione già decimata dalla guerra. E falciò anche alcune delle migliori menti del pianeta: Max Weber, Eghon Schiele, Guillaume Apollinaire, Edmond Rostand, Amadeo de Souza-Cardoso. Tutte queste morti lasciarono un vuoto e una malinconia diffusa. Così diffusa che alla fine ben pochi ebbero la forza di raccontare quell’esperienza, di rifletterci a posteriori. Dopo l’influenza la musa delle arti, secondo la Spinney, divenne più malinconica, ma senza il coraggio di riflettere sul perché. La «spagnola» era caduta sul positivismo comeIl virus sterminò almeno 50 milioni di persone e provocò un’ondata di terrore che cambiò la società e la cultura. I traumi più gravi sono quelli che il nostro cervello ci spinge a dimenticare. È una forma di auto protezione. E probabilmente succede anche a livello collettivo.Certamente è accaduto con l’epidemia di influenza passata alla storia come «spagnola» che, tra il 1918 e il 1920, flagellò l’intero pianeta. Di sicuro uccise almeno 50 milioni di persone, secondo alcune stime addirittura 100 milioni. Anche optando per le stime più basse, il virus influenzale che iniziò a diffondersi, nonostante il nome, dagli Stati Uniti è stato senza dubbio responsabile della pandemia più letale della storia. E per quanto la storiografia abbia speso fiumi di inchiostro sulla Prima e sulla Seconda guerra mondiale, è quasi certo che, come danno globale all’umanità, la «spagnola» superi ampiamente entrambe.

Eppure nei libri di storia è comparsa, per decenni, soltanto di sfuggita. Difficile capirne il motivo. Forse perché i morti non portavano necessariamente un’uniforme e nel loro morire non c’era nulla di eroico. Forse perché, colpendo in tutto il mondo, non si capì esattamente quanti fossero i morti: c’erano località in cui il virus si comportava come una normale influenza di stagione e altre in cui la popolazione veniva annientata. Forse semplicemente perché la sua casualità e il senso di impotenza che provocava erano troppo stranianti e spaesanti per portarne davvero memoria.

Del resto basta la descrizione dei sintomi fatta dai medici dell’epoca a far accapponare la pelle. Un contagio su cui si brancolava nel buio, una febbre improvvisa che spesso causava un violento delirio (molti malati morirono gettandosi dalla finestra). Poi il corpo che iniziava a riempirsi di macchie violacee… Se le macchie cominciavano a diventare nere la morte era quasi certa. Capitò così anche al poeta Apollinaire e al grande pittore Eghon Schiele (che morì a 28 anni, tre giorni dopo la moglie, che era incinta).

Ora però, a un secolo dall’esplosione della pandemia, arriva un libro, scritto dalla giornalista scientifica Laura Spinney, che indaga in ogni dettaglio questo dramma: 1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo (Marsilio, pagg. 348, euro 19). Laura Spinney parte dal «paziente zero», il soldato Albert Gitchell che si presentò all’infermeria della base militare di Camp Funston in Kansas, rapidamente seguito da un altro centinaio di commilitoni. E poi racconta la diffusione del virus in tutto il globo. Largo spazio è dato alla lotta dei medici contro un morbo di cui potevano capire ben poco. Presi dal panico reagirono, per usare le parole della Spinney, «svuotandogli contro l’armadietto dei medicinali», da quelli convenzionali a quelli omeopatici, ai rimedi da stregoni. Purtroppo era un armadietto tragicamente vuoto: gli antibiotici non erano stati ancora inventati e i retrovirali men che meno. A volte le cure peggiorarono addirittura la situazione, soprattutto quando veri e propri ciarlatani cercarono di approfittare della situazione tragica.

Uno degli altri grandi temi preso in esame nel dettaglio sono le strategie utilizzate dagli Stati, soprattutto nel controllo dei confini. Sul finire della Prima Guerra Mondiale, per l’Europa e gli Usa non vi fu scampo. I militari nelle trincee vennero travolti dal virus e si trasformarono in vettori che lo diffusero in ogni città e villaggio, al momento del loro rientro a casa. L’unica grande nazione capace di organizzare un vero contenimento del virus fu l’Australia, aiutata dai grandi spazi oceanici e da una politica oculata. L’unico errore fu che gli australiani rinunciarono all’isolamento troppo presto. Un errore da 12mila morti (comunque poca cosa rispetto ad altre nazioni). Nel proliferare del virus ebbe il suo peso anche la censura militare che impedì la corretta circolazione delle notizie, quindi anche l’adeguata prevenzione. L’influenza prese il nome di «spagnola» proprio perché i giornali spagnoli furono gli unici a parlarne apertamente. Nel clima di sospetto ci fu anche chi teorizzò che in realtà l’influenza fosse un’arma biologica prodotta dagli imperi centrali. In realtà il virus non risparmiò nessuno.

La Spinney è anche molto brava a raccontare, in parallelo alla grande storia, la microstoria dei singoli malati, a partire da diari e racconti dell’epoca. L’influenza colpì soprattutto persone tra i venti e trent’anni, il fiore di una generazione già decimata dalla guerra. E falciò anche alcune delle migliori menti del pianeta: Max Weber, Eghon Schiele, Guillaume Apollinaire, Edmond Rostand, Amadeo de Souza-Cardoso. Tutte queste morti lasciarono un vuoto e una malinconia diffusa. Così diffusa che alla fine ben pochi ebbero la forza di raccontare quell’esperienza, di rifletterci a posteriori. Dopo l’influenza la musa delle arti, secondo la Spinney, divenne più malinconica, ma senza il coraggio di riflettere sul perché. La «spagnola» era caduta sul positivismo come un colpo di clava. Speriamo di non doverne ricevere mai più, di colpi del genere, anche se i virus restano là fuori, al confine tra ciò che è vivo e ciò che è morto, ma in eterno un colpo di clava. Speriamo di non doverne ricevere mai più, di colpi del genere, anche se i virus restano là fuori, al confine tra ciò che è vivo e ciò che è morto, ma in eterno e cieco mutamento darwiniano. 

(Matteo Sacchi, IL GIORNALE 14 febbraio 29018)

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