Grotta a Male, tra il racconto e la storia
Il resoconto di Antonio Giampaoli, pubblicato su “Assergi racconta” di una recente escursione fatta a Grotta a Male, località sita nella campagna di Assergi, e ancor più la rievocazione, fatta con accenti poetici da Giacomo Sansoni, di una giovanile epopea avente per meta gli antri della spettacolare caverna, mi inducono a conferire alla puntuale relazione di Giampaoli e all’affascinante racconto di Sansoni una cornice storica.
Ci sono luoghi, come questo, in cui pare che storia e poesia quasi si rincorrano. “Grotta a Male” è situata, come si diceva, nella campagna di Assergi, frazione dell’Aquila, nella parte sud-occidentale del Massiccio del Gran Sasso, in direzione delle cosiddette Malecoste, in un declivio a poca distanza dal fiume Raiale.
Angelo Semeraro, appassionato studioso di archeologia nonché poeta a lungo residente a Paganica, che la esplorò negli anni trenta del secolo scorso, credette di rinvenirvi reperti appartenenti ad epoche diverse che testimonierebbero della presenza, a suo dire, di una popolazione stabile che avrebbe usato la grotta come luogo di culto. Ciò lo desumeva dai tanti reperti scoperti in una località detta Macerina d’ Carrafane, che i più anziani tra gli assergesi sicuramente hanno sentito nominare.
Questa grotta dalle risonanze fiabesche è da sempre presente nell’immaginario collettivo degli abitanti di Assergi. Nella mia fantasia di fanciullo vi ambientavo la storia di Alì Babà e i quaranta ladroni, oppure, più tardi, l’abitazione dell’omerico Polifemo e l’ingresso di Dante agli inferi.
Agli inizi dell’epoca moderna questa grotta, il cui nome le deriva con tutta probabilità dall’essere situata sulla propaggine estrema delle Malecoste (ma potrebbe essere stato in origine anche “amare”, voce dialettale del termine “amaro” , quasi a voler sottolineare la difficoltà nell’accedervi) fu visitata nel 1573 da Francesco De Marchi, ingegnere militare al servizio di Margherita d’Austria, allora da poco nominata governatrice della città dell’Aquila dal re di Spagna Filippo II, nella cui giurisdizione L’Aquila ricadeva in quanto appartenente al Vicereame di Napoli.
Ma chi era questo singolare personaggio destinato ad incrociare il suo destino con la nostra terra d’Abruzzo, e nel quale i cultori di storia patria s’imbattono? Francesco De Marchi fu spirito eclettico quanto mai. Vero italiano rinascimentale, al gusto per l’avventura univa una sincera passione per la conoscenza. Era nato a Bologna da famiglia cremasca di abili artigiani del legno. Doveva avere un animo poetico e amare la storia, se dette ai suoi due figli (avuti da una relazione con una donna bolognese che non volle mai sposare,…moderno anche in questo) il nome di Antonio e di Cleopatra. Quest’ultima, dal padre amata teneramente, dopo aver vissuto per qualche tempo nelle Fiandre insieme al genitore, si ritirò in convento, divenendo l’angelo tutelare dell’ingegnere militare.
Entrato ancor giovane al servizio del duca di Firenze Alessandro de’ Medici, ebbe modo di viaggiare e osservare gli avvenimenti con l’occhio acuto del cronista. Studiò architettura civile e militare, attività che al tempo poteva fungere, per un figlio del popolo, da ascensore sociale. Dopo l’assassinio del suo protettore, il duca Alessandro, passò al servizio della vedova, Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore Carlo V (quello sul cui impero non tramontava mai il sole), frutto di una giovanile passione fiamminga che l’imperatore ragazzo aveva coltivato con l’avvenente figlia di un modesto lavorante di arazzi. Margherita era convolata a nuove nozze con Ottavio Farnese, nipote del papa regnante Paolo III. Alle dirette dipendenze di Margherita, che di lì a poco diventerà duchessa di Parma e Piacenza, viaggiò molto, unendo all’esercizio della sua professione di ingegnere militare un acuto senso dell’osservazione, che lo portava a descrivere, con la passione dell’autodidatta, fatti, opere d’arte e fenomeni naturali nei quali la sua curiosità s’imbatteva. Nel 1568 rientrò in Italia al seguito della duchessa, che intendeva rifugiarsi nei suoi feudi abruzzesi dopo le fatiche del governo dei Paesi Bassi.
Il De Marchi, già anziano e prossimo alla fine della sua vita (morirà all’Aquila nel 1576), in uno degli intermezzi del suo “esilio” abruzzese, decise, dapprima, di scalare il Gran Sasso, impresa nella quale nessuno prima di allora si era cimentato, e poi, il giorno successivo, di discendere a Grotta a Male. Nell’ascesa sulla cima del Corno Grande fu accompagnato, oltre che da due compagni d’avventura, da tre assergesi, tra cui il cacciatore di camosci Francesco Di Domenico, che riuscì a stento a convincere ad accompagnarlo, tanto era stato il timore provato dal pover’uomo l’ultima volta che si era approssimato alla sommità della montagna. Furono necessari, un po’ impietosamente riferisce il De Marchi, “preghi e premi” per convincere i tre paesani.
L’ascesa dell’avventuroso ingegnere militare e dei suoi compagni si compì per quella che oggi si chiama “la via normale”, ma che allora dovette apparire un sentiero assai impervio che correva tra orridi dirupi. La vista che una volta giunti sulla vetta si dispiegò davanti al loro sguardo dovette rinfrancarli della fatica. A leggere il resoconto che ne fece il De Marchi, doveva essere una fulgida giornata estiva, dal momento i pionieri del Corno Grande scorsero da lassù i mari Adriatico e Tirreno, nonché, in fondo in fondo…il mar Ionio. Ma per quest’ultimo fu sicuramente scambiata la linea d’acqua lucente che riverberava dal lago del Fucino, a quel tempo vivo e vegeto.
Il giorno seguente (era il 20 agosto del 1573), nell’esplorazione alla grotta, insieme ad altri uomini, gli furono guide due sacerdoti. Fra i particolari narrati, e riferiti nel suo trattato Della Architettura militare (Libro VI, cap. IV) in un italiano non canonico ma apprezzabile, c’è la macabra scenetta di uno dei due sacerdoti, che, cacciatosi in una buca dalla quale dovettero trarlo fuori per i piedi, recava in mano un teschio. Riferisce anche il De Marchi che ai margini di uno dei laghi scrisse il suo nome e col piccone scolpì sulla roccia una croce. Poi, consumata una frugale colazione, dette fiato a un “corno d’Inghilterra”, forse cimelio di guerra, che risuonò paurosamente nei meandri dell’immensa caverna.
Particolare curioso, il 31 marzo 1962, a quattro secoli di distanza, alcuni speleologi romani, non senza emozione, rinvennero su una grande stalagmite scura la croce scolpita dal mitico ingegnere militare cinquecentesco. La duplice originale esperienza, del Gran Sasso e della grotta, dette all’avventuroso collaboratore di Margherita l’impressione di essere salito sopra le nuvole e, successivamente, di essere disceso in una tomba.
Mi piace infine ricordare che Margherita d’Austria, di cui Francesco De Marchi fu fino alla morte fedele servitore e apprezzato confidente, visse all’Aquila per diversi anni, dopo aver soggiornato a Campli, Penne, Leonessa, Cittaducale e Montereale. Fu una grande donna. Profondamente religiosa ma immune da ogni fanatismo, in un secolo insanguinato dalle guerre di religione, trovandosi a governare i riottosi Paesi Bassi, non indulse mai alla crudeltà, e per questo fu esautorata dal governo dal fratellastro Filippo II di Spagna. Non mancò inoltre, da cattolica convinta, di invocare la riforma dei costumi nella Chiesa di Roma.
All’Aquila risiedette, fin dalla nomina a Governatrice della città, nel palazzo che oggi porta il suo nome, Palazzo Margherita, che negli ultimi decenni è stata sede, prima del Tribunale, e dopo del Municipio, e che come tutti i palazzi storici del capoluogo abruzzese è stato devastato dal terremoto del 2009. Donna di forte carattere e di temperamento dinamico, impiantò e diresse in località Pile, alla periferia della città, una vera e propria moderna azienda agricola.
Giuseppe Lalli, 28 febbraio 2018