Quei ragazzi di Praga e Varsavia che lottarono per la libertà
Un saggio curato da Guido Crainz ed edito da Donzelli racconta la rivolta oltre Cortina.
La contestazione libertaria degli anni Sessanta? C’è stata davvero. Un sacco di giovani e di intellettuali hanno rischiato grosso, e spesso pagato in prima persona, per provare a porre fine all’autoritarismo di Stato e affrancarsi da un potere imperialista e spietato. Peccato che non fossero a Parigi, Londra, Washington o Roma. Peccato che nelle immancabili celebrazioni per il Sessantotto questi martiri – veri – rischino come al solito di finire nel dimenticatoio. Del resto già all’epoca chi contestava, con più agio, in Occidente, nella maggior parte dei casi, si guardò bene dal solidarizzare con la rivolta, molto più motivata, che divampava, in contemporanea, nei Paesi dell’Est.
Era più facile far finta di niente, oppure derubricare le proteste a tentativo di “restaurazione reazionaria”. Tanto per fare un esempio, un guru della contestazione europea alla guerra del Vietnam come il drammaturgo tedesco Peter Weiss, svilì così il grido di dolore che già nel 1967 arrivava da Praga: “Gli intellettuali cecoslovacchi sono caduti vittime di fatali fraintendimenti e di una sopravvalutazione della libertà in Occidente”. Lui invece sottovalutava l’orrore di un incipiente (agosto 1968) occupazione a colpi di carri armati. Per riscoprire, invece, la forza creativa e il coraggio della contestazione oltre la Cortina di ferro niente di meglio che compulsare la raccolta di saggi a cura di Guido Crainz appena pubblicata da Donzelli: Il Sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni (pagg. 202, euro 19,50). Questo libro a più mani – ci sono lavori di Pavel Kolár, Wlodek Goldkorn, Nicole Janigro, Anna Bravo – ripercorre sogni di riforma, rivolte studentesche, appelli di intellettuali, speranze e lotte, sviluppatasi in molti dei Paesi satelliti dell’Urss nel corso degli anni Sessanta. Dalle origini, spesso quasi goliardiche e ancora interne al mondo comunista, sino agli esiti più tragici come l’occupazione sovietica di Praga o la morte da martire di Jan Palach nel 1969. Perché fu a Est che ai giovani non fu consentito di cambiare nulla.
Prendiamo il caso della Cecoslovacchia. La protesta studentesca era già iniziata nel 1964. Gli studenti mal digerivano il fatto che molti dei colpevoli dei crimini dell’epoca staliniana l’avessero passata liscia. Insomma avevano creduto alla destalinizzazione ma non vedevano cambiare nulla. Ne ebbero in cambio repressione. Risposero con geniale ironia. Nel maggio 1966 approfittarono delle sfilate dei carri allegorici che si tenevano a maggio in tutti gli atenei per attaccare il regime. Ecco alcuni degli slogan che misero in campo: “Beati i poveri di spirito. Il loro regno è la Cecoslovacchia”; “Viva l’Urss, ma che si mantenga da sola!”; “Basta con la letteratura rosa, Il Rudé Právo – il giornale ufficiale del partito, ndr – la sostituisce benissimo”. A quel punto ci pensò la polizia, ma intanto anche molti intellettuali stavano prendendo posizione contro il regime, come si vide chiaramente nel congresso degli scrittori del giugno 1967.
Milan Kundera disse chiaramente che tra nazismo e stalinismo il passo era veramente breve, aggiungendo che la cultura ceca doveva “rientrare nel contesto europeo”. Vaclav Havel, Milos Forman e Jiri Menzel andarono anche oltre denunciando «uno spirito da pogrom nei confronti dell’opera creativa degli intellettuali». Di solidarietà in Occidente ne raccolsero davvero poca, con l’eccezione di Günter Grass. In Italia brilla il caso isolato di Francesco Guccini che nella sua canzone Primavera di Praga (1970) fu tutt’altro che omertoso. Ma furono casi isolati: il reportage da Praga scritto ad esempio da Umberto Eco per l’Espresso fu un capolavoro di disinformazione (ed era una scelta sua perché altri cronisti come Angelo Maria Ripellino fecero il loro lavoro).
Ancora più illuminanti le pagine sulla Polonia, di cui si parla addirittura meno che della Cecoslovacchia. Il ’68 polacco iniziò quando venne vietato il dramma teatrale Gli avi di Adam Mickiewicz. Il testo, ottocentesco, era blandamente anti-russo e la gente a teatro applaudiva troppo, un po’ come gli italiani applaudivano il Verdi antiaustriaco. Il divieto fece scoppiare le proteste degli studenti che denunciarono anche come in Polonia fosse tornato a circolare un grande odio verso gli ebrei. Di nuovo i giornali italiani e europei, in generale, ignorarono quei fermenti persino mentre venivano allontanati dall’insegnamento Zygmunt Bauman e Stefan Morawski. Così, in un assordante silenzio, la Polonia cadde sotto una cappa sollevata solo negli anni Novanta. Ma nei saggi raccolti nel volume ci sono molti altri esempi. Esempi di come un pezzo d’Europa, quella che sognava davvero la libertà, fu condannata, anche dai presunti “libertari” d’Occidente, a restare sequestrata.
Matteo Sacchi/IL GIORNALE, 25 febbraio 2018