Cechov e il terremoto: il mondo andato in pezzi
“Uno zio Vanja”, riuscito riadattamento in chiave di attualità di Letizia Russo di uno dei più famosi drammi di Anton Cechov, andato in scena al ridotto del Teatro Comunale dell’Aquila.
Sullo sfondo si colloca la vicenda narrata dal grande drammaturgo russo, ambientata in una realtà di campagna dove uno zio (Vanja) e una nipote (Sonja), segretamente innamorata, ma non ricambiata, del dottore del distretto (Astrof), conducono una tediosa quotidianità dedicandosi con grande abnegazione all’amministrazione della tenuta e versandone il ricavato al cognato di Vanja, un professore ormai anziano che incarna la tipica figura del pomposo ed inconcludente intellettuale, convolato a nuove nozze con una giovane donna (la bella Elena), che suscita passione sia in Vanja che nel dottore: un gruppetto di persone che i legami parentali e il caso hanno accomunato e che pare siano destinati a vivere insieme come animali in una gabbia.
Alla fine, quando il professore, rivelando la sua ingratitudine, propone alla famiglia di vendere la tenuta, Vanja, che sostiene di aver sacrificato l’intera sua esistenza all’ombra dell’intellettuale un tempo ammirato e che ora gli si rivela in tutta la sua inconsistenza, non esita a sparagli due colpi, mancandolo clamorosamente. Il professore e la sua giovane consorte alla fine se ne andranno, lasciando alla loro rassegnata esistenza zio e nipote. Quest’ultima (Sonja) però, benché provata nell’anima per il suo amore non corrisposto per il medico, reagisce conferendo al lavoro che l’attende al fianco dello zio Vanja un valore non solo umano, ma soprannaturale.
L’autrice prende spunto dal celebre lavoro di Cechov per tracciare un ritratto sconsolato e tragicomico della contemporaneità, caratterizzata da disillusione e solitudine, e che ci appare soffocata da macerie umane prima ancora materiali. Il terremoto, fenomeno di tragica attualità nel capoluogo abruzzese e nell’Appennino centrale, viene evocato, con il suo immancabile corollario di corruzione da parte di imprenditori spregiudicati e di inefficienza dei pubblici poteri, come metafora di un mondo andato in pezzi, così come ci viene descritto in una famosa commedia di Gabriel Marcel, il profetico filosofo esistenzialista. Un mondo in frammenti come una bambola caduta dalle mani di un bambino, che invano cercherà tra i pezzi il cuore. Un mondo dove i disastri naturali sembrano null’altro che la proiezione fisica dei nostri disastri interiori. Il verde che sparisce, il bosco che arretra, il cemento che avanza, le grandi opere inutili, i ponti eretti per unire…il nulla. Tutto questo ed altro si denuncia nella rappresentazione teatrale; e, insieme, si intravede una struggente richiesta di senso e di poesia.
“Bisogna essere macchine senz’anima, per distruggere tutta questa bellezza” dice a un certo punto l’interprete di Elena, la bella donna contesa del racconto di Cechov che ha sposato un anziano professore che si rivela maestro del nulla, come i tanti profeti della modernità che ci avevano promesso paradisi in terra e che ci hanno regalato solo rispettabili inferni. Elena denuncia la nostra incapacità di commuoverci allo spettacolo del vento che muove le foglie d’autunno, e l’impossibilità di ammirare una bella donna senza lasciarci disarcionare dal desiderio di possederla. Non riusciamo più a vivere con lo sguardo della contemplazione e dell’incanto. Abbiamo dissolto nella nostra anima ogni anelito all’amore gratuito e al sacrificio per l’altro. Insomma: non riusciamo più a dare unità e senso alle nostre azioni quotidiane.
Il finale, però, riportando la scena sul dramma di Cechov, ci riserva, a sorpresa, un messaggio di speranza. Il vecchio professore griderà: “Agire! Bisogna agire!”, mentre Sonja, la vera eroina del dramma, riprendendo la vita nelle sue mani, darà all’azione, come si diceva, uno sbocco soprannaturale, e pronuncia un ispirato monologo, tra la poesia e la preghiera, tra il maturo stoicismo e la luminosa speranza cristiana.
Parole che vale la pena di riportare: “Zio Vanja, vivremo una lunga, lunga fila di giorni, di lente serate, sopporteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà; lavoreremo per gli altri, e adesso e nella vecchiaia, senza riposo, e quando arriverà anche per noi la nostra ora, moriremo umilmente, e di là, oltre la tomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che la sorte è stata amara per noi, e Dio avrà pietà di noi, e io e te, zio, caro zio, vedremo una vita luminosa, bella, incantevole, conosceremo la gioia, e guarderemo alle nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso…e riposeremo! Io credo, zio, credo, con tutte le mie forze, con tutta l’anima, credo…E riposeremo! Sentiremo gli angeli, vedremo il cielo che sfolgorerà di diamanti, vedremo tutto il male della terra e tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che inonderà il mondo…e la nostra vita diventerà serena, tenera, dolce come una carezza…Io credo; io credo…riposeremo… riposeremo!”
La grande anima lirica russa finisce per avvolgere, come struggente melodia, il pubblico aquilano, che con qualche ferita ancora nell’anima, mostra di apprezzare, e alla fine applaude convintamente.
(Giuseppe Lalli, 12 marzo 2018)