Lobby femminili, calciatori-industrie, politici impuniti. La cronaca che diventa profezia.

Quando si vuol fare un complimento postumo a uno scrittore, si dice o si scrive che “è ancora attuale” o, con tono più circospetto, che “resta attuale”. Trattando di Luciano Bianciardi (1922 – 1971), si deve correggere un po’ il tiro, perché lui, passando gli anni e i decenni, diventa sempre più attuale.

Merito suo o colpa di tutti gli altri, compresi noi lettori di oggi? Entrambe le risposte sono buone. Il suo merito, infatti, consiste nell’aver saputo capire, con anticipo di qualche decennio, appunto, dove saremmo arrivati, in politica, nello sport, nell’economia, nel costume. Eppure Bianciardi non era né un profeta di sventura, né un nichilista, non aveva una visione apocalittica. Semmai apodittica, nel senso che, scritte da lui, le cose non necessitano di dimostrazione: sono così e basta, aderenti alla realtà, di ieri e di oggi. Bianciardi era, insomma, un osservatore, un acutissimo osservatore. Si metteva lì, al tavolino del Bar Jamaica o alla scrivania di casa (di una qualsiasi delle tante case che furono e insieme non furono sue), con una sigaretta in bocca e una grappa a portata di mano. E guardava e registrava e scriveva.

La sua formazione e, ancor più, la sua sformazione, gli avevano regalato un punto di vista privilegiato. Quanto alla formazione, nato piccolo borghese a Grosseto, due settimane prima del primo congresso pansovietico da cui nacque l’Urss, e cresciuto comunista, ebbe la fortuna di contrarre al momento giusto la malattia del dubbio nei confronti dell’infallibilità del Partito. Una malattia che è come il morbillo o come la varicella: meglio farle, e farle da piccoli, così poi, una volta che le hai superate, cresci più sano, più forte e, oltretutto, immune a esse. Tolto il dente, tolto il dolore. Ed ecco, dunque, la sformazione di Bianciardi: essendosi il dubbio ben presto sviluppato in certezza, Luciano diventa ciò che è: un vero anarchico. Cioè un acratico, un negatore del potere costituito, proprio a partire dal potere del Partito. Il suo sguardo è lucido, non indossa lenti deformanti, il suo essere di sinistra non è posa modaiola da antagonista, né posizione strumentale da politicante, bensì la naturale presa d’atto di se stesso.

E le nostre colpe? Le nostre colpe sono quelle ataviche dell’italiano, medio, piccolo o grande. Sempre pronto a cavalcare le onde del momento, a litigare sulle cose futili e a girare la testa dall’altra parte di fronte a quelle importanti, a voltare periodicamente la gabbana, buona per tutte le stagioni. Tuttavia Bianciardi non ci vuole male, non s’impanca ad anti-italiano. Non è contro il sistema, bensì a favore di un altro sistema. Lo dimostra il fatto che le vittime preferite della sua penna non sono le figure apicali, ma quelle che stanno sotto l’apice, che all’apice reggono la coda, i quadri intermedi, i capetti, quelli che mandano avanti gli altri per vedere che cosa succede e poi dire, “visto? l’avevo detto io…”. Insomma, gli intellettuali.

Il ventennio di Bianciardi, cioè gli anni Cinquanta e Sessanta, è stato una dittatura dell’ironia nel senso greco, classico, di «dissimulazione». Una dissimulazione che è cronaca quasi in presa diretta. Nel secondo volume dell’Antimeridiano (ExCogita Isbn, 2008) curato dalla figlia Luciana, da Massimo Coppola e da Alberto Piccinini, i suoi scritti giornalistici raccontano il percorso dalla provincia dei butteri e dei minatori alla capitale (presunta) morale dei galleristi e dei giornalisti, degli editori e dei “tafanatori”, delle segretarie e dei segreti di Pulcinella ambrosiani. E nei romanzi e nei saggi che da oggi tornano in libreria, riuniti in un volume dal Saggiatore con il titolo Il cattivo profeta (pagg. 1482, euro 62), si riflette la stessa dialettica fra la Maremma bovinamente lenta e sottosviluppata e la Milano ipertrofica e ipercinetica.

La “mafia” delle “riviste femminili” che precorre la chick lit e le quote rosa dei romanzi rosa, il goleador Gigi Riva come «macchina per fare soldi» che anticipa Cristiano Ronaldo e Neymar, quel tale politico molisano che alle elezioni del ’46 ottenne sia la maggioranza sia la minoranza, presentandosi con due liste e facendo votare l’una alle donne e l’altra agli uomini, la televisione come anima del commercio e l’«alibi del progresso»… Troviamo tutto nel Lavoro culturale e nell’Integrazione, nella Vita agra e nella Battaglia soda. Titoli che sono autoritratti e manifesti programmatici. Fino all’esortazione giunta in limine mortis, quell’Aprire il fuoco nostalgico del Risorgimento. Di quando l’Italia voleva ancora essere unita.

Daniele Abbiati/IL GIORNALE, 8 marzo 2018

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