La diplomazia muscolare di Washington
La nuova strategia di Trump, l’editoriale del direttore de La Stampa, Maurizio Molinari
Lo stile «transactional» di Trump nella guida della Casa Bianca comincia ad avere dei risultati concreti, suggerendo ad avversari e alleati la necessità di confrontarsi con un nuovo modo di declinare il ruolo degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Per Michael Wolff, autore del best seller «Fire and Fury» frutto di lunghe settimane passate nella West Wing, «transactional» significa «agire sulla base della volontà di fare qualcosa per ottenere sempre qualcosa in cambio, in tempi stretti». Ovvero, la presidenza come strumento di continue e aspre «transazioni» con chiunque, sempre, nell’interesse degli Usa. È una versione della diplomazia come strumento della teoria «America First» che si è vista con chiarezza in azione nei confronti della Cina di Xi in occasione della scelta di imporre dazi per almeno 60 miliardi di dollari sull’importazione di circa mille prodotti al fine di proteggere le industrie nazionali più minacciate dalla concorrenza di Pechino.
Per gli elettori degli Stati del Mid West e degli Appalachi, decisivi per la conquista della presidenza nel 2016, significa che Trump sta mantenendo l’impegno di ridurre drasticamente l’impatto del «made in China» sulla perdita dei posti di lavoro nel ceto medio vittima delle diseguaglianze economiche. Trump ha interesse ad esaltare questo braccio di ferro con Pechino in vista delle elezioni di Midterm per il rinnovo del Congresso di Washington in novembre nel tentativo di mobilitare la base del suo movimento per scongiurare un cambio di maggioranza a favore dei democratici.
Ma c’è dell’altro, perché la coincidenza fra i dazi alla Cina e la decisione del despota nordcoreano Kim Jong-un di accettare un incontro con Trump e sospendere i test nucleari ha consolidato alla Casa Bianca la convinzione che solo esercitando forti – e pubbliche – pressioni su Pechino si riesce a spingere Xi ad ottenere reali concessioni da Pyongyang. Sono queste le «transazioni» che distinguono l’approccio di Trump alle relazioni internazionali ed hanno poco a che fare con l’arte della diplomazia tradizionale, perché il braccio di ferro non avviene nel riserbo, affidato ad incontri segreti e sherpa, ma si svolge sotto gli occhi di tutti – anche su Twitter – al fine di renderlo più efficace, dirompente. La dimensione pubblica – quasi televisiva – della diplomazia «transactional» serve a moltiplicare l’impatto politico della concessione ottenuta. Fa parte di quella che Trump definisce «the art of deal», l’arte dell’accordo. Si spiega così anche l’approccio con gli alleati europei – a cominciare dai tedeschi – sui dazi: hanno l’opportunità di evitarli ma devono spendere di più per la difese nella cornice della Nato, da oltre mezzo secolo troppo dipendente dai contribuenti americani. E si spiega con tale approccio «transactional» anche il rimpasto avvenuto nell’amministrazione con la sostituzione di Rex Tillerson con Mike Pompeo al Dipartimento di Stato e di H.R. McMaster con John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale: ad avanzare sono due avversari dichiarati dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015, perché Trump non lo vuole solo modificare bensì stracciare.
L’eloquente messaggio ha tre destinatari: Teheran, per far capire agli ayatollah che la stagione delle concessioni di Barack Obama è davvero finita; Bruxelles, per spingere gli alleati europei ad un approccio diverso all’Iran entro il 12 maggio quando Trump annuncerà la decisione sull’intesa del 2015; Riad e Gerusalemme, per rassicurare gli alleati in Medio Oriente sulla volontà di proteggerli dalle crescenti minacce strategiche iraniane. Ciò che tiene assieme tante e tali mosse è la volontà del presidente Trump di ingaggiare palesi, determinati e mediatici bracci di ferro con gli avversari dell’America: la Cina sul fronte del libero mercato, la Nord Corea e l’Iran su quello della sicurezza. Nell’intento di ottenere da loro concessioni talmente evidenti da essere percepite dai singoli cittadini che lo hanno eletto. Resta da vedere come Trump declinerà tale approccio nei confronti della Russia, un aggressivo rivale nei confronti del quale ha tentato un approccio più dialogante ma, visti gli scarsi risultati dalla Siria al cyberspazio, sta ora ripensando la strategia. Assieme a Pompeo, Bolton e alla terza protagonista della sua politica di sicurezza: l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley.
Maurizio Molinari, La Stampa 25 marzo 2018