L’altra faccia del dolore
Una storia d’altri tempi, il racconto di Giuseppe Lalli
La storia che sto per raccontare è degna di un racconto del libro Cuore, quel libro edificante che ai bambini della mia generazione facevano leggere in quarta elementare. Ma a differenza dei racconti di Edmondo De Amicis, questa è una storia vera, che ha per protagonista una persona che ho avuto il piacere di conoscere qualche settimana fa.
Il racconto è ambientato nell’ospedale di Tivoli, città alle porte di Roma, dove l’amico presta spesso la sua opera di volontario. Si trovava un giorno nel reparto di ortopedia, quando vide la capo-sala, che usciva da una stanza, lasciarsi andare ad un piccolo gesto di sconforto. Le chiese il motivo di quel gesto, e l’operatrice sanitaria, per tutta risposta, gli disse che “il malato del numero 23”, come si usa dire nei reparti ospedalieri, sempre intrattabile, da giorni si rifiutava di prendere cibo. Il volontario chiese allora di entrare nella stanza del degente. Si avvicinò al suo letto e cercò di approcciarlo con dolcezza. Lo salutò con un sorriso, ma l’uomo non gli rispose. Insistette, affabile, nel salutarlo, ma il malato continuò a non degnarlo neppure di uno sguardo. Qualunque altra persona avrebbe desistito, ma il mio amico non si dette per vinto.
Tornato in ospedale di lì a qualche giorno, non vedendo il malato al solito posto, chiese spiegazione alla capo-sala, che lo informò che il signore del numero 23 era stato portato d’urgenza in sala operatoria. Lo rivide qualche giorno dopo nello stesso letto, ma più sofferente di quando lo aveva visto la prima volta. Era trasandato, e con la barba lunga. Il mio amico lo salutò con la solita dolcezza, come aveva fatto la prima volta. Sulle prime l’anziano signore non rispose, secondo il suo solito; ma poi, alla domanda se gradiva che gli tagliasse la barba, farfuglò che non aveva la lametta. Per la prima volta, aveva risposto. Il volontario allora, subito aprì il cassetto a lato del lettino e ne estrasse una bomboletta di schiuma da barba. Senza attendere il permesso del malato gli spalmò la schiuma sulla faccia, e, approfittando di non poter usare il pennello, gli… accarezzò dolcemente e a lungo la faccia. Fu a quel punto che l’anziano signore, dapprima gli strinse forte forte il polso, senza dire una parola; poi, mollando la presa, si lasciò andare ad un pianto dirotto. Piansero insieme, l’uno nelle braccia dell’altro, come avviene quando un padre e un figlio si ritrovano dopo una lunga assenza.
Quando si riprese, il vecchio disse, quasi gridò, al mio amico : “Ma perché…ma perché mi fai questo ? Io non sono stato capace di farlo a mio padre…”.
La pietà aveva avuto la meglio. Un sentimento che premeva dentro da molto tempo parve defluire come un fiume in piena. Il senso di colpa gli aveva anestetizzato l’anima per molti anni. L’inaspettato gesto di amore aveva finito per sciogliere il ghiaccio del suo cuore. Il mio amico tiene molto a mantenere l’anonimato: gli basta, da buon cristiano qual è, di aver contribuito a gettare un seme di speranza in un cuore indurito dalla vita e tentato dalla disperazione.
Ho scelto, per raccontare questa storia, la sera del Venerdì Santo, il giorno in cui i cristiani fanno memoria di un’altra storia d’amore, vecchia di duemila anni, quella di un Dio fattosi uomo che volle assumere sulle sue spalle tutti i mali del mondo, e mostrare che il dolore è l’altra faccia dell’amore.
Più volte il protagonista di questa storia ha prestato servizio come barelliere nei treni bianchi dell’U.N.I.T.A.L.S.I., quei convogli che portano i malati a Lourdes, e all’interno dei quali solidarietà e dolore si mescolano; mentre la speranza, virtù bambina, sembra prendere per mano, e quasi trascinare, le due sorelle maggiori, la fede e la carità, secondo la splendida immagine suggerita da Charles Peguy.
Quella che segue è una preghiera tradotta dal francese che ho copiato dagli appunti di un sacerdote esemplare che l’ha musicata. Ne è venuto fuori un brano degno di un Fabrizio De André. È una toccante invocazione a Maria, l’altra silenziosa protagonista di quel venerdì di duemila anni fa.
IO TI PREGO MARIA
Per i poveri sogni che salgono al cielo,
tremanti come ladri che rubano per fame,
per il sorriso triste di chi mi chiede il pane,
per l’amico malato che sa di non guarire
e per il moribondo che non vuol morire :
Io ti prego Maria…
Per gli occhi senza luce, le mani senza dita,
per tutte le speranze che muoiono deluse,
per chi soffre perché non sa pregare,
per l’offerta del giusto lasciata sull’altare,
e per chi ti bestemmia e per chi non sa amare :
Io ti prego Maria…
Per chi mi sembra ricco, per chi mi sembra felice,
per chi soffre e sorride, che soffre e maledice,
per tutte le disgrazie che non posso contare,
per l’uccello ferito e il sasso che uccide,
per l’erba che ha sete e la pioggia che cade :
Io ti prego Maria…
Per quello che non credo, per quello che non spero,
per il grande mistero che avvolge questa vita,
per il male che ho fatto e non so perdonare
per il bene che aspetto, per quel che non so dare,
per tutti i miei fratelli che non riesco ad amare :
Io ti prego Maria…
(Giuseppe Lalli, 8 aprile 2018)