L’editoriale del direttore de La Stampa Maurizio Molinari sull’attacco degli Stati Uniti al regime siriano

L’attacco degli Stati Uniti al regime siriano nasce da due obiettivi convergenti: creare una coalizione internazionale contro l’uso di armi chimiche da parte di Bashar Assad e mettere sulla difensiva la Russia di Vladimir Putin in Medio Oriente.  L’azione militare è stata limitata nell’entità e negli obiettivi perché questo è il cuore del piano disegnato dal Pentagono di James Mattis alla base dell’intesa fra Donald Trump, Theresa May ed Emmanuel Macron: l’intento non è rovesciare il regime.

Ma eliminare le armi di distruzione di massa che Assad ha adoperato contro i civili a Douma la scorsa settimana, a Khain Sheikoun nel 2017 e «in almeno altre 50 occasioni» secondo Nikki Haley, ambasciatrice Usa all’Onu. In un Pianeta disseminato di crisi armate il pericolo più devastante viene dalla possibilità che un tiranno adoperi armi di distruzione e per evitare «che crimini come quello di Douma si ripetano», come afferma Downing Street, le tre maggiori potenze dell’Occidente hanno scelto di agire. Con il risultato di trasformare la linea rossa che Obama si limitò ad enunciare nel 2013 e Trump iniziò a far rispettare nel 2017 – con il primo attacco ad Assad – in una posizione condivisa.

È per questo che altre capitali occidentali – da Ottawa a Gerusalemme – condividono con forza gli attacchi all’arsenale chimico di Assad. La linea rossa tracciata da Trump, May e Macron diventa, de facto, un nuovo fattore nei precari equilibri internazionali. Ciò significa che le famiglie siriane vittime dei gas del Raiss di Damasco sanno che c’è qualcuno determinato a difenderle. E ciò significa che altri regimi in possesso di armi di distruzione di massa – dalla Nordcorea all’Iran – sanno cosa rischiano nel caso dovessero usarle contro propri cittadini o Paesi vicini. 

Ma non è tutto perché l’attacco ad Assad punta anche a mettere sulla difensiva la Russia nel Mediterraneo. Se Putin è tornato protagonista in Medio Oriente grazie all’intervento militare in Siria del settembre 2015 ed ha colto il suo maggior risultato nel salvataggio del regime di Assad, ora Trump lo indica come il protettore di «un criminale» perché gli garantisce difesa aerea, legioni di mercenari e lo scudo del veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ciò significa voler schiacciare Putin sull’alleanza con Assad e l’Iran di Ali Khamenei – presente in Siria con unità scelte, armi sofisticate e schiere di miliziani sciiti – allontanando Mosca dai molti Stati sunniti che corteggia. Un primo risultato in tal senso Trump lo ha colto con la scelta della Turchia di plaudire ai raid. Nell’arco di 24 ore Recep Tayyip Erdogan è passato dalle vesti di alleato di Putin nella spartizione della Siria a sostenitore di Trump nell’attacco ad Assad. Il sostegno di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar al blitz completa il quadro. Trump lavora per rimarginare le ferite fra Paesi sunniti, puntando a unificarli per fronteggiare l’asse Mosca-Damasco-Teheran ben raffigurato dalle manifestazioni dei fan di Assad con i drappi dei tre Paesi. Ciò significa che la Siria diventa sempre di più il terreno di scontro fra due coalizioni rivali: i pro-Assad sostenuti da Mosca e gli anti-Assad sostenuti da Washington. Ecco perché Putin tuona contro Trump parlando di «aggressione contro un Paese sovrano»: punta a sfruttare l’attacco Usa per rafforzare la sua leadership del fronte opposto. 

È questo scenario politico-militare che spiega perché il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, parli senza mezzi termini di «nuova Guerra Fredda»: il braccio di ferro su Assad è l’epicentro di un duello strategico fra Usa e Russia che ha nel Medio Oriente la regione più a rischio ma si estende fino ad Europa dell’Est, Estremo Oriente e cyberspazio. «Ovunque possono, i russi ci causano seri problemi» afferma un alto funzionario del Dipartimento di Stato. Sono queste le ragioni che rendono possibile una guerra di attrito fra Washington e Mosca destinata a giocarsi in gran parte sullo scacchiere del Mediterraneo. Con la possibilità di azioni militari limitate come quella di ieri sulla Siria, di più estesi conflitti per procura come suggeriscono le crescenti fibrillazioni Iran-Israele e dunque di ricadute a pioggia nelle relazioni internazionali. Soprattutto per quei Paesi, come l’Italia, che appartengono alle alleanze dell’Occidente ma guardano spesso verso Mosca.

(Maurizio Molinari, La Stampa 15 aprile 2018)

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