Il carattere di un Paese nella politica estera
Il «primato della politica estera» sta operando potentemente anche nell’Italia di oggi e forse contribuirà a generare altri riallineamenti. Una riflessione di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera.
Non c’è nulla come le crisi internazionali che abbia la capacità di mostrare ai vari Paesi di quale pasta siano fatti. L’espressione «primato della politica estera» evoca una dottrina a lungo influente fra gli osservatori della vita pubblica europea. Per essa le vicende interne dei Paesi sono plasmate dalla politica internazionale. Nonostante il tradizionale provincialismo di tanti italiani, la loro tendenza a guardare solo il proprio ombelico, persino quegli stessi italiani, magari confusamente, sono consapevoli di quanto le vicende internazionali pesino sul destino dell’Italia e sulle loro stesse scelte. Ciò che è stata la Repubblica italiana, dalla nascita alla caduta del Muro di Berlino, è in larga misura spiegato dalla Guerra fredda. Così come le sue vicende successive sono state potentemente influenzate dagli equilibri del mondo post-bipolare. Lasciando da parte gli effetti diseducativi di campagne elettorali condotte all’insegna di slogan provinciali (volti a dare la falsissima impressione che noi si sia i padroni assoluti del nostro destino), è un fatto che nessuno può sfuggire ai condizionamenti che l’ambiente internazionale esercita. Ci sono margini di libertà, si può decidere di reagire a quei condizionamenti — ma sempre entro limiti ristretti — in un modo o nell’altro. Nessuno però può ignorarli.
La crisi siriana, anche alla luce delle (diversificate) reazioni dei nostri gruppi politici all’attacco americano, inglese e francese contro Assad, è rivelatrice. Esiste la possibilità che in un prossimo futuro l’ Italia scivoli lentamente (magari senza dichiararlo) fuori dal suo sistema di alleanze occidentali, finendo nell’area di influenza russa o in uno stato di semi-neutralità che avvantaggerebbe i russi. Ciò sarebbe l’effetto dei cambiamenti avvenuti negli equilibri politici interni con le ultime elezioni. Però, quegli stessi cambiamenti sono stati a loro volta favoriti da un indebolimento complessivo del mondo occidentale (crisi dell’integrazione europea, crescente divaricazione di interessi e di prospettive fra Stati Uniti e Europa) di cui fino ad ora abbiamo fatto parte. In un gioco di azioni e reazioni per cui i mutamenti internazionali incidono sulla politica interna e gli sviluppi di quest’ultima contribuiscono a accelerare i mutamenti internazionali. Si pensi a quanto guadagnerebbe Putin, in termini di influenza internazionale (per esempio nel Mediterraneo), se potesse contare sul sostegno italiano. E a quanto, per contro, si indebolirebbero l’alleanza occidentale e la stessa Unione europea. Alcune reazioni italiane alla crisi erano previste e prevedibili. Come quelle del «partito russo» (del quale Matteo Salvini ha scelto di essere il principale esponente italiano). Berlusconi, in un’articolata difesa della propria posizione (Corriere, 15 aprile) ha riproposto lo schema di Pratica di Mare: pieno sostegno alla nostra appartenenza alle alleanze occidentali unita però alla rivendicazione, per l’Italia, di un ruolo di mediazione fra Stati Uniti e Russia. Tale posizione potrebbe rivelarsi insostenibile se, come è possibile, le tensioni fra americani e russi fossero destinate ad esasperarsi. Il governo Gentiloni si è fin qui attestato sull’unica posizione per lui politicamente possibile: condanna dell’uso delle armi chimiche e giustificazione dell’intervento occidentale, ma anche indisponibilità a partecipare ad azioni armate. Non sappiamo se, in caso di un aggravamento della crisi siriana, quella posizione potrà reggere in futuro.
La dichiarazione più interessante (non scontata) si deve a Luigi Di Maio: «appoggio ai nostri alleati». È in linea con quanto egli ha detto sulla Nato in campagna elettorale. Però è in contrasto con la politica, radicalmente antioccidentale, praticata dai 5Stelle per tanti anni. Non basta qualche dichiarazione per cancellare il passato. Solo il tempo ci dirà se si tratta di tatticismi o di un cambiamento strategico (lo vedremo presto: un vero cambiamento deve per forza innescare forti proteste interne). Nel frattempo, possiamo osservare che il «primato della politica estera» sta operando potentemente anche nell’Italia di oggi e forse contribuirà a generare altri riallineamenti. Alla luce dei risultati elettorali il Partito democratico e Forza Italia sembrano morti che camminano. È possibile che finiscano per squagliarsi: una parte del Partito democratico probabilmente seguirà, prima o poi, il proprio (ex) elettorato e confluirà nei 5Stelle, una parte di Forza Italia a sua volta, sceglierà di unirsi alla Lega. Ma il punto è che ci saranno anche settori del Pd e di Forza Italia che, al pari di molti elettori, non saranno disposti a seguire quelle strade.
Ci sarà allora la possibilità (ammesso che emerga una leadership adeguata) che si formi un rassemblement neocentrista. Che c’entra il suddetto primato della politica estera? C’entra. Perché è quel primato ad avere rimodellato le divisioni politiche in Italia. Come le sta rimodellando in tanti altri Paesi europei. La classica divisione destra-sinistra è ora ridimensionata (non eliminata ma ridimensionata sì) dal sopraggiungere di una nuova divisione, imposta dai cambiamenti internazionali: fra i fautori della «chiusura» verso l’esterno (protezionismo, antieuropeismo, eccetera) e i sostenitori della società aperta. I primi subiscono l’attrazione di una potenza autoritaria come la Russia, i secondi vogliono mantenere l’ancoraggio occidentale. I primi comprendono che quell’ancoraggio ostacola le spinte alla chiusura, i secondi lo difendono per la stessa ragione. È questa nuova divisione a rendere plausibile, non innaturale, una alleanza di governo fra 5Stelle e Lega. Prima o poi, essa obbligherà le forze sparse dei difensori della società aperta, sconfitte in questa campagna elettorale, ad aggregarsi. Per contrattaccare.
(Angelo Panebianco, Corriere della Sera 17 aprile 2018)