Che cosa ferma la sinistra?
L’analisi dell’economista dell’Università di Harvard Dani Rodrik sulle possibili vie di uscita dalla crisi in cui si trovano i partiti democratici e di centro-sinistra.
CAMBRIDGE – Perché i sistemi politici democratici non hanno reagito con sufficiente prontezza alle rimostranze che i populisti autocratici hanno usato con successo: disuguaglianze e preoccupazioni economiche, declino dello status sociale percepito, divario tra élite e cittadini comuni? Se i partiti politici, in particolare quelli del centrosinistra, avessero portato avanti un programma più coraggioso, forse si sarebbe potuta evitare l’ascesa di movimenti politici di destra e xenofobi.
In linea di principio, una maggiore disuguaglianza determina la richiesta di una maggiore ridistribuzione. I politici democratici dovrebbero rispondere con un’imposizione fiscale più alta sui ricchi, destinandone i proventi ai meno abbienti. Questa intuizione è formalizzata in un noto documento di economia politica di Allan Meltzer e Scott Richard: più ampio è il divario di reddito tra l’elettore medio e quello mediano, più alte sono le tasse e maggiore è la ridistribuzione.
Eppure, in pratica, le democrazie si sono mosse nella direzione opposta. La progressività delle imposte sul reddito è diminuita, si è incrementato il ricorso ad imposte regressive sui consumi, e la tassazione dei capitali ha seguito una corsa globale al ribasso. Invece di incentivare gli investimenti infrastrutturali, i governi hanno perseguito politiche di austerità che sono particolarmente dannose per i lavoratori a bassa specializzazione. Sono state salvate grandi banche e imprese, ma non le famiglie. Negli Stati Uniti, il salario minimo non è stato adeguato a sufficienza, permettendo la sua erosione in termini reali.
Parte della ragione di ciò, almeno negli Stati Uniti, è che l’abbraccio del Partito Democratico alla politica delle identità (selezionando l’inclusione lungo le linee di genere, razza e orientamento sessuale) e ad altre cause liberali dal punto di vista sociale è avvenuto a scapito di questioni pratiche come reddito e lavoro. Come scrive Robert Kuttner in un nuovo libro, l’unica cosa che mancava alla piattaforma di Hillary Clinton durante le elezioni presidenziali del 2016 erano le classi sociali.
Una spiegazione è che i Democratici (e i partiti di centro-sinistra dell’Europa occidentale) si sono legati troppo a grande finanza e grandi imprese. Kuttner descrive come i leader del Partito Democratico abbiano deciso esplicitamente di aprire un dialogo con il settore finanziario dopo le vittorie elettorali del presidente Ronald Reagan negli anni ‘80. Le grandi banche sono diventate particolarmente influenti non solo attraverso il loro peso finanziario, ma anche mediante il controllo di posizioni politiche chiave all’interno di amministrazioni democratiche. Le politiche economiche degli anni ‘90 avrebbero potuto prendere una strada diversa se Bill Clinton avesse ascoltato di più il suo segretario del lavoro, Robert Reich, un avvocato politico progressista, e meno il suo segretario al Tesoro, Robert Rubin, ex dirigente di Goldman Sachs.
Ma gli interessi costituiti spiegano solo fino ad un certo punto il fallimento della sinistra. Le idee hanno svolto un ruolo almeno altrettanto importante. Dopo che negli anni ‘70 gli shock dal lato dell’offerta avevano dissolto il consenso keynesiano dell’era postbellica, e la tassazione progressiva e lo stato sociale europeo erano andati fuori moda, il vuoto venne riempito dal fondamentalismo di mercato (chiamato anche neoliberalismo) del tipo sostenuto da Reagan e Margaret Thatcher. La “new wave” sembrava, inoltre, aver catturato l’immaginario dell’elettorato.
Invece di sviluppare un’alternativa credibile, i politici del centro sinistra hanno accettato totalmente le nuove tendenze. I Nuovi Democratici di Clinton e il New Labour di Tony Blair hanno agito da “cheerleader” della globalizzazione. I socialisti francesi sono diventati inspiegabilmente sostenitori della liberazione dei controlli sui movimenti di capitali internazionali. La loro unica differenza rispetto alla destra erano il “dolcificante” che promettevano sotto forma di maggiori spese per programmi sociali e istruzione – che raramente diventavano realtà.
L’economista francese Thomas Piketty ha recentemente documentato un’interessante trasformazione nella base sociale dei partiti di sinistra. Fino alla fine degli anni ‘60, i poveri generalmente votavano per partiti di sinistra, mentre i ricchi votavano per la destra. Da allora, i partiti di sinistra sono stati sempre più catturati dalle élite istruite, che Piketty chiama “Sinistra dei Bramini”, per distinguerli dalla classe dei “Mercanti” i cui membri votano ancora per i partiti di destra. Piketty sostiene che questa biforcazione delle élite ha isolato il sistema politico dalle istanze ridistributive. La sinistra bramina non è a favore della ridistribuzione, perché crede nella meritocrazia – un mondo in cui gli sforzi vengono premiati, e dove i redditi bassi sono più probabilmente l’esito di uno sforzo insufficiente che della sfortuna.
Le idee su come funziona il mondo hanno avuto un ruolo anche tra chi non fa parte delle elite, smorzando la domanda di ridistribuzione. Contrariamente alle implicazioni della struttura Meltzer-Richard, l’elettore medio americano non sembra molto interessato all’incremento delle aliquote fiscali marginali o a maggiori trasferimenti sociali. Questo sembra essere vero anche quando egli è consapevole – e preoccupato – del forte aumento delle disuguaglianze.
Ciò che spiega questo apparente paradosso sono i bassissimi livelli di fiducia degli elettori nella capacità del governo di affrontare le disuguaglianze. Un gruppo di economisti ha scoperto che gli intervistati, “provocati ” da riferimenti ai lobbisti o al salvataggio di Wall Street, manifestano livelli di sostegno considerevolmente inferiori per le politiche anti-povertà.
Negli Stati Uniti, dagli anni ’60, la fiducia nel governo è generalmente diminuita, con alcuni alti e bassi. Vi sono tendenze analoghe anche in molti paesi europei, specialmente nell’Europa meridionale. Ciò suggerisce che i politici progressisti che prevedono un ruolo attivo del governo nel rimodellare le opportunità economiche devono affrontare una dura battaglia per conquistare l’elettorato. La paura di perdere quella battaglia può spiegare la timidezza nelle risposte della sinistra.
Tuttavia, studi recenti ci dicono che le opinioni su ciò che il governo può e dovrebbe fare non sono immutabili. Sono soggette a persuasione, esperienze e cambiamenti delle circostanze. Questo è vero per le élite come per le non-elite. Ma una sinistra progressista capace di resistere a politiche xenofobe dovrà fornire una buona storia, oltre che buone politiche.
(Dani Rodrik, project-syndicate aprile 2018)
*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Economica Politica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.