Il commento del direttore de La Stampa Maurizio Molinari

In Medio Oriente è incominciata una guerra d’attrito fra Iran e Israele che è frutto dei cambiamenti strategici in Siria, vede l’utilizzo di nuovi armamenti e tattiche, riflette gli interessi contrastanti di Mosca e Washington, e può degenerare in un conflitto regionale di maggiori dimensioni. Le guerre d’attrito sono una delle tipologie dei conflitti mediorientali degli ultimi 70 anni. Subito dopo la nascita di Israele nel 1948, dai porosi confini con Giordania e Siria le incursioni armate arabe furono tali e tante da obbligare l’allora premier Ben Gurion a fronteggiarle creando una nuova unità – la 101 affidata ad Ariel Sharon – incaricata di combattere oltre confine così come fra il 1967 ed il 1970 le schermaglie quotidiane lungo il Canale di Suez furono la continuazione della Guerra dei Sei Giorni e consentirono all’Egitto di porre le basi per l’attacco a sorpresa che nel 1973 diede inizio alla guerra del Kippur.

La guerra di attrito si verifica quando due o più Stati si combattono a distanza ravvicinata ma, per le ragioni più diverse, senza dare vita ad un conflitto di tipo tradizionale. È la versione contemporanea delle guerre tribali del deserto, la cui caratteristica è una situazione di costante conflittualità ma con intensità alterne. Se ora Iran e Israele sono protagoniste di questo tipo di confronto è perché si tratta di Stati avversari che il conflitto siriano ha trasformato in vicini geografici. L’Iran degli ayatollah ha designato Israele come nemico ideologico sin dalla rivoluzione khomeinista del 1979 ma ha poi ingaggiato sempre scontri indiretti – dalla metà degli Anni Ottanta per mezzo degli Hezbollah libanesi o dei pasdaran – fino all’attuale conflitto civile siriano che ha portato Teheran ad inviare truppe scelte, armamenti sofisticati e miliziani sciiti per sostenere il regime di Assad che ora, a missione compiuta, vengono rafforzati e consolidati per minacciare direttamente il territorio di Israele da basi situate a meno di un’ora di volo da Tel Aviv e Gerusalemme. Per Ali Khamenei, Guida Suprema della rivoluzione iraniana e capo indiscusso dell’apparato militare, avere uomini e mezzi a ridosso delle Alture del Golan è un risultato di prima grandezza: dimostra che l’impegno a distruggere «il regime sionista entro un massimo di 25 anni», come ha detto la scorsa settimana il generale iraniano Abdolrahim Mousavi, può essere concretamente raggiunto.

L’obiettivo indicato da Khomeini di «estirpare il cancro sionista dalla Palestina» diventa per Teheran un’operazione militare che può essere concretamente progettata grazie alla possibilità di spostare liberamente uomini e mezzi lungo l’«autostrada sciita» come il re Abdallah di Giordania definisce la continuità territoriale, da Teheran a Beirut, fra Stati legati all’Iran da rapporti di alleanza o amicizia. Per Gadi Eisenkot, capo di Stato Maggiore israeliano, il rischio di conflitto è testimoniato dalla presenza di almeno cinque basi aeree iraniane in Siria a cui bisogna aggiungere un arsenale di «decine di migliaia di missili» in possesso di Hezbollah in Libano. Da qui la necessità di «uno scambio di intelligence fra Israele e Arabia Saudita» per far nascere in Siria un’alleanza de facto israelo-sunnita contro la minaccia comune di Teheran.

Sono questi evidenti cambiamenti strategici a fare da cornice alla sperimentazione di nuove armi su entrambi i fronti. A metà febbraio l’Iran ha inviato per la prima volta sui cieli di Israele un drone armato di ordigni dimostrando di poter condurre un nuovo tipo di attacchi contro obiettivi civili e militari. Il drone è stato abbattuto da un elicottero introducendo un inedito tipo di duello tattico in Medio Oriente: i droni riescono a perforare le difese antimissile e per abbatterli devono essere inseguiti da velivoli-cacciatori, come se fossero uccelli rapaci. Da parte sua Israele per colpire le base di Tyas, nella Siria Occidentale, dove l’Iran aveva accumulato un numero imprecisato di droni armati, ha adoperato a inizio aprile dei jet dotati di missili da crociera capaci di sfuggire ai radar russi ed operare a grande distanza. Dimostrando un controllo dei cieli della regione rafforzato dall’acquisto degli F-35 americani, velivoli capaci di trasformarsi in centrali elettroniche per qualsiasi tipo di intervento, aereo o terrestre. Droni iraniani e F-35 israeliani sono armi al debutto, così come la tattica della «marea umana» è un’altra significativa novità tattica. Hamas la sta testando, oramai da quattro venerdì, lungo i confini della Striscia di Gaza per mettere in difficoltà con migliaia di civili le difese israeliane, ma quanto si prepara in Siria è di tutt’altra portata: gli oltre 80 mila miliziani sciiti, provenienti da più Paesi, che l’Iran sta ammassando in Siria potrebbero trasformarsi in una «marea umana» votata alla Jihad sul Golan capace di trafiggere le difese terrestri israeliane ed attaccare i centri civili in Galilea. Sono questi nuovi scenari di guerra che portano Abas Aslani, vicecomandante dei Guardiani della Rivoluzione, a dedurre che «i sionisti si trovano nelle fauci del dragone e presto dovranno fuggire in mare» essendo minacciati da una tenaglia formata da missili Hezbollah in Libano e miliziani sciiti in Siria. Avigdor Lieberman, ministro della Difesa israeliano, risponde minacciando l’escalation: «Se voi colpirete Tel Aviv, noi colpiremo Teheran». Ovvero, un conflitto regionale è possibile.

Tutto ciò riflette gli interessi conflittuali di Mosca e Washington perché il Cremlino considera l’Iran il più strategico dei suoi alleati in Medio Oriente mentre per la Casa Bianca si tratta del Paese portatore di maggiori pericoli collettivi, dal terrorismo alle armi di distruzione di massa. Ed inoltre mentre attorno al patto con Teheran la Russia sta costruendo una vasta area di influenza politico-energetica nella regione, gli Stati Uniti tentano di arginarla il più possibile facendo leva sul consenso dei Paesi sunniti e di Israele. Insomma, la guerra d’attrito fra Teheran e Gerusalemme è appena all’inizio, ma l’impatto è già significativo. Innescando una nuova dinamica dalle conseguenze imprevedibili in Medio Oriente.

(Maurizio Molinari, LA STAMPA 29 aprile 2018)

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