Donatella Di Pietrantonio, scrittrice della vita
La recensione di Giuseppe Lalli a L’Arminuta, il romanzo con cui la scrittrice abruzzese si è aggiudicata l’ultima edizione del Premio Campiello.
La nostra terra d’Abruzzo, magica e misteriosa, come ebbe a definirla qualche anno fa la scrittrice Dacia Maraini, è da sempre terra di talenti letterari. Solo nell’ultimo secolo, accanto a giganti come Gabriele D’Annunzio e Ignazio Silone, molti sono i poeti e scrittori nati e cresciuti nella nostra regione: basti pensare a Fedele Romani, Edoardo Scarfoglio, Giovanni Tittarosa, Ennio Flaiano, Laudomia Bonanni, Ugo Maria Palanza, Mario Pomilio, per nominare solo alcuni nomi che vengono alla mente. Nel 2017 ad aggiudicarsi il prestigioso Premio Campiello è stata la scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio con il romanzo L’Arminuta.
Donatella Di Pietrantonio è nata e cresciuta ad Arsìta, in provincia di Teramo. Antico e povero borgo contadino adagiato sulle pendici del Monte Camicia, sul versante orientale del Gran Sasso, è stato per la giovane Donatella la piccola Macondo che l’ha spinta a scrivere. Ha conseguito all’Aquila la laurea in Odontoiatria e vive a Penne, in provincia di Pescara, dove esercita la professione di odontoiatra pediatrico. Posseduta dal demone della scrittura fin da bambina, ha pubblicato nel 2011 il suo primo romanzo, Mia madre è un fiume, che narra di un difficile rapporto madre-figlia che si consuma sullo sfondo di un mondo contadino postbellico, in un villaggio senza acqua né luce ispirato dall’infanzia trascorsa ad Arsìta. La malattia degenerativa della madre e la necessità terapeutica di aiutarla a ricostruire un’identità forniranno l’occasione per recuperare un legame affettivo, e rimediare così ad un rapporto “nato storto” fin dall’inizio. Quello del rapporto tra madre e figlia, che tornerà prepotentemente nel suo ultimo romanzo, sembra un punto “nevralgico” nella tematica narrativa dell’odontoiatra Di Pietrantonio.
Del 2013 è il romanzo Bella mia, ispirato alla scrittrice dal terremoto che nel 2009 ha colpito L’Aquila, città a cui si sente molto legata. E’ il racconto di una donna che nel sisma perde la sorella gemella, che lascia un figlio adolescente di cui la donna è chiamata ad occuparsi insieme all’anziana madre. La necessità di convivere con un tragico presente porta i protagonisti al recupero doloroso di un passato da accarezzare con la nostalgia dei ricordi. Saranno i piccoli gesti che si esprimeranno nelle reciproche attenzioni ad aprire la strada alla speranza della rinascita, nel segno di una ricostruzione del tessuto familiare e sociale dopo la tragedia.
Ed eccoci a L’Arminuta. Il titolo, accattivante e misterioso, altro non è che la traduzione dialettale dell’espressione “la ritornata”. Il periodo storico della vicenda narrata è quello dell’autrice. Il romanzo ci racconta di una ragazzina di tredici anni nata in una famiglia povera e adottata da una coppia di lontani parenti che è finita per diventare la sua nuova famiglia, tanto che la bambina chiama i nuovi genitori “mamma” e “papà”. Data in adozione dalla famiglia biologica per motivi di bisogno, si vede riconsegnata dal padre adottivo, come una merce, alla famiglia di origine, che con la bambina non si era mai fatta viva. Inizia così per la protagonista del racconto una nuova vita, una realtà imprevista in cui è chiamata a riconnettersi con un mondo molto diverso da quello accarezzato solo fino a qualche giorno prima. Dopo essere vissuta al riparo da ogni difficoltà, nel nuovo ambiente familiare, freddo e a tratti ostile, è chiamata a crescere e a riconquistarsi una identità giorno dopo giorno. Comincia a fare esperienza di un piccolo universo chiuso, che all’inizio rischia di apparirle perfino brutale. Il lettore è così condotto, sulle prime, a vedere – e a giudicare – attraverso gli occhi pieni di risentimento della ragazzina. Della famiglia fanno parte, oltre ai genitori, la sorella Adriana, di poco più piccola, un bambino di pochi mesi e tre fratelli maschi, il più grande dei quali è il diciottenne Vincenzo. L’Arminuta aveva trascorso l’infanzia in una perenne fame di madre, eppure, quando se la vede di fronte, non riesce nemmeno a pronunciare la parola “mamma”: “da quando le sono stata restituita la parola “mamma” – dice con originale similitudine – si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori”. L’Arminuta, tuttavia, non si lascia andare, a suo modo lotta per non affogare, come – stando alla efficace immagine ascoltata dalla viva voce della scrittrice – le molecole di latte che si agitano e si dimenano per non andare a fondo, e così facendo si solidificano fino a diventare formaggio. All’inizio trova la sua ancora di salvezza in Adriana, che appare forte e sicura di sé fin tanto che agisce nel mondo chiuso della sua famiglia, ma fuori dal suo ambiente è smarrita, e finirà lei ad essere aiutata dall’Arminuta. Nascerà tra le due ragazze una solidarietà che alla fine si riconosceranno reciprocamente: “Nella complicità ci siamo salvate”, si legge nell’ultima pagina del romanzo. Altro personaggio interessante è il fratello Vincenzo, ribelle e sincero, precocemente indurito dalla vita, all’apparenza spregiudicato, ma pieno di vita e a suo modo desideroso di riscattarsi da un ambiente asfissiante. Al confronto con i figli, i genitori ci appaiono dei rassegnati, peggio ancora: dei vinti dalla vita.
Il romanzo non manca di denunciare anche un lato opaco della nostra società: una scuola a dir poco distratta (dice Vincenzo: “Eh scì, la scuola! Mi sono ritirato alla seconda media, tanto mi bocciavano!!!“) e una famiglia che, anche quando c’è, risulta assente. Quella del rapporto genitori-figli, insieme alla famiglia biologica contrapposta a quella adottiva, è una delle dicotomie che attraversano il romanzo; un’altra è quella tra la città (simbolo della modernità nella quale la bambina è cresciuta) e la campagna, con quel piccolo mondo antico dove l’Arminuta sembra essere sprofondata. Manca, per la verità, nel cammino di questi giovani, anche la figura di un maestro dello spirito che, nel bel mezzo della strada, in città o in campagna, sappia additare una direzione di marcia per non smarrirsi tra le nebbie di un’ambigua modernità.
Benché ambientato nella seconda metà del secolo scorso, tra le righe del racconto accade spesso di percepire gli echi lontani di un Abruzzo senza tempo, quello evocato dai racconti dei nostri genitori e nonni, quando a sera le donne rientravano a casa dopo una dura giornata di lavoro nei campi e si accingevano a preparare la cena; mentre gli uomini si accovacciavano vicino al focolare, e il padre pareva non esserci mai per i figli.
Ne L’Arminuta, e ancor più nel primo romanzo dell’autrice, si respira a tratti l’atmosfera del D’Annunzio delle Novelle della Pescara; ma ancor più evidente appare il debito della scrittrice pennese nei confronti di Ignazio Silone. Il villaggio senza luce e senza acqua che fa da sfondo al racconto di Mia madre è un fiume ricorda molto da vicino Fontamara. È il Silone degli oppressi e dei “cafoni”, a cui con un raggiro i signori possono portare via perfino l’acqua, a far breccia nel cuore della giovane Donatella, come in quello di tanti giovani abruzzesi che nel secolo scorso si sono avvicinati ai romanzi del grande scrittore marsicano rimanendone affascinati. Silone, dunque, come riconoscibile risonanza emotiva…
Aspetto non secondario di L’Arminuta è, infine, il linguaggio e, più in generale, lo stile narrativo. La prosa è quasi sempre asciutta, scarna, ma anche luminosa e penetrante, come lo sguardo della protagonista quando si posa sulle persone e sulle cose. Il ritmo incalzante e scorrevole del racconto è reso ancor più fluido dall’uso sapiente della forma dialettale, presente nei termini usati e nella stessa struttura sintattica delle frasi dei dialoghi. La comunicazione è semplice e immediata, come avviene nel parlato dialettale. Coerente con la forma dialogica risulta lo stile descrittivo, che ci appare senza orpelli o artificiose sovrastrutture. A ciò concorrono la brevità delle frasi e una punteggiatura essenziale, fatta solo di punti e di virgole. Questa scelta stilistica ha il suo precedente più illustre, nella narrativa italiana, nella prosa verista di Giovanni Verga (si pensi ai celebri Mastro Don Gesualdo e I Malavoglia). Rintracciabile anche in molte pagine di Silone, ha, nel Novecento, la sua massima espressione nel Pasolini di Ragazzi di vita e di Una vita violenta: è il linguaggio che si adegua al carattere dei personaggi e al contesto sociale che fa da sfondo alla vicenda narrata. Si ha l’impressione che l’autrice dia la parola ai suoi personaggi avendo cura di mettersi dietro le loro spalle: la protagonista, Adriana, Vincenzo, la madre stessa ci si mostrano per come sono, anche quando fingono; parlano come mangiano, per dirla con una frase fatta.
Non mancano tuttavia, a proposito di stile, pennellate di vera poesia, come questa: “L’ultimo quarto di luna si è affacciato alla finestra e l’ha attraversata. Sono rimaste le stelle a strascico e la minima fortuna di avere il cielo sgombro di case, da quella parte.”; o come quando l’Arminuta descrive lo spettacolo pirotecnico sul mare: “Si spegnevano dopo un attimo di gloria universi di stelle appena esplose, sullo sfondo freddo degli astri fissi. Sott’acqua, lontano dai nostri pensieri, lo spavento muto dei pesci”.
Romanzo sociale e psicologico, ma anche diario esistenziale, il libro è percorso da un grande bisogno di autenticità e dalla deliberata scelta di rifuggire da ogni ipocrisia. Significativi, a questo riguardo, i riferimenti al sesso, fatti dall’autrice sempre con accenti di maturo realismo, come quando il racconto sfiora il tema scabrosissimo dell’attrazione fisica tra consanguinei – tra L’Arminuta e Vincenzo – tema, questo, non estraneo alle vecchie cronache dei mostri villaggi di montagna. L’amore, senza altra qualificazione, è un altro filo rosso del romanzo.
Donatella Di Pietrantonio sa bene che ogni scrittore ha i suoi dèmoni (“Ogni angelo è tremendo”, scriveva un’altra scrittrice contemporanea), e quindi ogni libro è sempre in qualche modo autobiografico. Se questo è vero, e se ha ragione Paul Valery quando asserisce che ogni libro che scriviamo altro non è che un capitolo di un’unica opera, ne discende che con L’Arminuta siamo di fronte, per la Di Pietrantonio, a un punto di arrivo e di partenza. Occorrerà tenerla d’occhio…
L’Arminuta è un romanzo che si legge tutto d’un fiato; ma parla al cuore e alla testa, e chiede, pertanto, di essere riletto e meditato. La vera letteratura non è semplice svago, divertissement: è vita che si aggiunge a vita. Buona lettura, dunque, e soprattutto, come ama ripetere la scrittrice, buona vita a tutti!
A conclusione di questa breve recensione del libro di Donatella Di Pietrantonio, sulla scia di un filo rosso che si coglie nella sua narrativa ben al di là delle vicende particolari narrate (parliamo di antiche risonanze di un Abruzzo ancestrale), mi piace riportare le parole che si leggono nelle prime pagine di quell’epocale romanzo di Ignazio Silone che è Fontamara, già evocato. In questo Abruzzo senza tempo, Fontamara poteva essere Arsìta, Assergi, Aielli, Pescina: tutte piccole patrie dormienti e attraversate da piccole storie che di tanto in tanto (si trattasse di rare vicende risorgimentali o di episodi, meno rari, di brigantaggio, di emigrazione o di guerra) il vento della grande Storia ricollegava ai destini di una patria più grande.
“Fontamara somiglia, dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Un centinaio di casucce quasi tutte a un piano, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti mal coperti da tegole e rottami d’ogni sorta. A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite morti amori odii invidie lotte disperazioni…”.
Giuseppe Lalli, 4 maggio 2018