L’inquieto maggio in Israele
Il commento di Paolo Mieli (sul Corriere) a proposito del discorso antisemita di Abu Mazen
Attenzione al maggio israeliano. Già domani saremo probabilmente costretti ad assistere al sesto venerdì consecutivo di incidenti lungo la frontiera tra Gaza e Israele. Gli scontri — che hanno già provocato oltre quaranta morti e cinquemila feriti (per i quali le Nazioni Unite hanno stigmatizzato l’«uso eccessivo della forza» da parte di Israele) — si protrarranno fino alla metà del mese di maggio quando, nel «giorno della Nakba» (in arabo «catastrofe», «cataclisma»), potrebbero trasformarsi in qualcosa di più impegnativo. I palestinesi chiamano queste manifestazioni «Grande marcia del ritorno», indetta in ricordo dell’uccisione, nel 1976, di sei loro connazionali che avevano protestato per la confisca di terre. Una «festa pacifica per non dimenticare» la definisce il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, funestata però, a suo dire, da «cecchini israeliani».
Israele risponde sostenendo che l’ottanta per cento degli uccisi lungo la frontiera erano «membri attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici». Abu Mazen, pur senza prendere pubblicamente le distanze, si è mostrato perplesso sulle iniziative prese a Gaza. Poi, però, per rimettersi in sintonia con i tempi che si annunciano, si lascia andare a considerazioni antiebraiche davvero strabilianti: parlando a Ramallah al cospetto del Consiglio palestinese, in un discorso di novanta minuti ripreso integralmente dalla tv, Abu Mazen ha detto che gli ebrei la Shoah se la sono cercata. Secondo lui quel che accadde agli israeliti ai tempi del nazismo non va ricondotto alla loro fede religiosa o appartenenza etnica (tra l’altro, a suo giudizio, gli ebrei ashkenaziti non sarebbero nemmeno semiti), bensì alle loro «funzioni sociali», vale a dire «usura, attività bancaria e simili». Ha aggiunto infine che lo Stato ebraico è un «prodotto coloniale» e in quanto tale meriterebbe di far la fine che hanno fatto tutte le entità simili. In che tempi? Il generale Abdolrahim Mousavi — dal fronte iraniano — pochi giorni fa ha detto che la distruzione di Israele dovrebbe essere realizzata «entro un massimo di 25 anni». «Entro un massimo», si noti bene. Ma tutto deve essere ben visibile fin da adesso. Questo mese di maggio dovrebbe chiarire all’intero mondo arabo che è giunto il momento di vendicare la Nakba.
Il 14 maggio cadranno i settant’anni dalla fondazione di Israele avvenuta nel 1948 in ottemperanza alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (29 novembre 1947) che stabiliva dovessero nascere in quella regione due Stati, uno ebraico (che nacque) e l’altro palestinese (che non nacque). Quel giorno, nell’ambito della ricorrenza, l’ambasciata degli Stati Uniti verrà trasferita a Gerusalemme, in seguito ad una decisione, dal fortissimo impatto simbolico, presa dal presidente americano Donald Trump nelle settimane immediatamente successive alla sua elezione (l’impegno lo aveva preso nel corso della campagna elettorale). Il 15 maggio, il giorno successivo, cadrà l’anniversario dei settant’anni della Nakba: in quella data l’intero mondo arabo ricorda la fuga dalla Palestina a cui furono costretti centinaia di migliaia di palestinesi, al termine della prima guerra arabo-israeliana (1948-1949).
Negli ultimi anni anche importanti storici dello Stato ebraico, primo tra tutti Benny Morris, hanno riconosciuto le colpe del proprio Paese a danno dei palestinesi, gravissime colpe. Qualche altro storico ancor più radicale, come l’ex militante del Partito comunista israeliano Ilan Pappé, ha denunciato atti di vera e propria «pulizia etnica» commessi in quei frangenti dai propri connazionali. È stato più volte riesaminato — e non solo da Morris e Pappé — il massacro di Deir Yassin in cui, il 9 aprile 1948, furono uccisi da formazioni paramilitari ebraiche, Irgun e banda Stern, oltre cento palestinesi (forse duecento, forse più, secondo fonti arabe). Due personalità che all’epoca erano al comando dell’Irgun e della banda Stern e che successivamente sarebbero state elette alla guida del governo israeliano, Menachem Begin e Itzhak Shamir, si sono giustificate dell’atto sanguinoso sostenendo che la conquista di quel villaggio era indispensabile per aprire la via di collegamento tra la costa e Gerusalemme e che, nelle ore precedenti all’attacco, loro stessi si premurarono di esortare la popolazione «non combattente» di Deir Yassin ad abbandonare le proprie case.
Ma è un fatto che lo stesso capo del nuovo Stato, David Ben Gurion, condannò l’accaduto. Vale la pena altresì di ricordare che Israele fu immediatamente riconosciuto da Stati Uniti e Unione Sovietica. Che il Paese ai suoi primi giorni di vita fu attaccato da milizie egiziane, libanesi, irachene, siriane, corpi di volontari provenienti da Arabia Saudita, Libia, Yemen e dalla Legione araba di Glubb Pascià (il generale inglese John Bagot Glubb che, per conto di re Husayn, guidò fino al ’56 l’esercito giordano). Alla fine del conflitto, nel ’49, Israele riuscì ad allargare i propri confini rispetto a quelli decisi dall’Onu e firmò armistizi separati con gli aggressori. Armistizi, non la pace; l’esercito del Cairo continuò a «presidiare» Gaza, quello di Amman la Cisgiordania. Per diciotto anni: fino alla «guerra dei sei giorni» (giugno 1967) al termine della quale Israele occupò quei «territori» sui quali doveva e dovrebbe ancora nascere lo Stato palestinese. Per quasi venti anni, in altre parole, lo Stato di Palestina non nacque per una decisione dei Paesi arabi che scelsero di utilizzare le terre assegnate al popolo palestinese dalle Nazioni Unite, come aree militari da cui doveva partire l’attacco definitivo per rigettare in mare l’«entità sionista».
Ora si può avere l’impressione che i «venerdì di sangue» susseguitisi dal 30 marzo lungo le frontiere di Gaza, più che a ricordare la Nakba servano a distrarre Israele da un’altra partita che si giocherà anch’essa nel mese di maggio: quella con l’Iran. Qui la scadenza è di poco anticipata rispetto alla doppia ricorrenza del 14 e 15: due o tre giorni prima, il 12 maggio, Donald Trump renderà nota l’intenzione di non onorare (con ogni probabilità) l’accordo con Teheran voluto dal suo predecessore assieme all’Europa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha preparato il terreno per una denuncia di quel patto, rivelando come la sua intelligence sia entrata in possesso di cinquantacinquemila documenti che proverebbero le menzogne dell’Iran tuttora impegnato, a dispetto di quanto concordato, nel proprio piano nucleare (il Paese di Ali Khamenei sarebbe in procinto di mettere a punto cinque ordigni di potenza equivalente a quello che nell’agosto del 1945 provocò la distruzione di Hiroshima).
Ad un tempo, nella notte di domenica 29 aprile, l’esercito israeliano avrebbe provocato — usiamo il condizionale perché l’azione non è stata rivendicata — un’esplosione ad una base militare in Siria nei pressi di Hama. La base, come l’aeroporto militare siriano di Tayfur bombardato dagli israeliani il 9 aprile, sarebbe a disposizione dei pasdaran iraniani e un tal genere di bombardamenti sarebbero stati effettuati da Israele per rendere più difficile ai militari provenienti da Teheran di mettere «radici in Siria» (e questo intento Netanyahu l’ha annunciato ufficialmente). Radici che però sono state già parzialmente messe, se è vero che nel Paese di Assad sono presenti oltre ottantamila miliziani sciiti pronti a riversarsi su Israele dalle alture del Golan. Tutto appare pericolosamente in bilico. E i precedenti ci dicono che in quella regione quando la corda si tende fino a questo punto, il rischio che scoppi all’improvviso una guerra è alto. Troppo alto perché il mondo se ne resti tranquillo a guardare.
(Paolo Mieli, Corriere della Sera 3 maggio 2018)