La metafisica dei terremoti
Una riflessione di Giuseppe Lalli su un libro di Umberto Dante, che racconta le ore e i giorni dopo il terremoto del 2009 a L’Aquila.
L’AQUILA – Nel panorama piuttosto affollato della letteratura fiorita nel dopo terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, un piccolo libro, uscito qualche mese fa per i tipi della casa editrice Carabba, merita una particolare attenzione. S’intitola “Via Cascina 20” e porta la firma di Umberto Dante, già docente di Storia Moderna e Contemporanea all’Università dell’Aquila, romano di nascita, giunto nella maturità, dopo un lungo peregrinare, nel capoluogo abruzzese, a cui si sente sinceramente legato. Accademico sviato nella letteratura, è autore di molte opere storiografiche, l’ultima delle quali, “Le bandiere e i canti”, pubblicata non molto tempo fa, è un’accurata ed affascinante ricerca di ampio respiro tra la politica, la letteratura e il costume dell’Italia moderna, in pagine dove assai spesso la vena poetica si fonde mirabilmente con il rigore storiografico. Il sisma lo ha colto nella sua abitazione aquilana, in quella via Cascìna 20 che dà il titolo al libro.
Il piccolo scritto di Dante ha il pregio di essere un vero e proprio diario esistenziale. Vi si ravvisa, inoltre, un orizzonte metafisico che accompagna tutta la cronaca di quella drammatica notte del 6 aprile di nove anni fa, e che si impone all’attenzione del lettore come la chiave di lettura, se non unica, certo la più profonda. Le tracce metafisiche di cui Umberto Dante dissemina le pagine del suo racconto quasi a voler fissare dei paletti lungo il cammino, appaiono a tratti come la riattivazione di un filo spezzato. Nel tempo racchiuso da poche ore si consumano destini e ricordi di una vita. Viene da pensare all’Ulisse di Joyce, se non addirittura all’Ulisse di Omero; ma in quest’ultima similitudine, a differenza dell’antico eroe greco, a guidare l’autore non è tanto il desiderio di tornare alla patria (la sua Itaca, la casa, è stata distrutta dal sisma), quanto il bisogno di dare un senso al quel suo notturno peregrinare.
Chi conosce bene il capoluogo abruzzese riconoscerà subito l’itinerario descritto nelle poche pagine del racconto. Lo scenario del percorso è tutto interno al vecchio centro storico dell’Aquila. Dalla sua casa in via Cascina, Dante si reca alla vicina Piazza Palazzo, sede storica del municipio, poi di nuovo casa, poi ancora a Piazza Palazzo…Piazza Duomo, chiesa delle Anime Sante…ma non riesce ad andare, stranamente, dove aveva deciso di recarsi fin dall’inizio, in quella “Casa dello Studente” di cui ha sentito parlare dalle persone che ha incontrato appena uscito di casa nei termini di una probabile tragedia, e che nomina esprimendo la speranza che gli studenti, quella sera di domenica delle Palme, non siano tornati. Percorre Corso Federico II, ma ad un certo punto, già vicino alla meta, invece di proseguire per Via XX Settembre e raggiungere la vicina Casa dello Studente, si sposta a Piazza della Prefettura. Poi prosegue e si ferma a Piazzale Paoli, all’inizio di Via XX Settembre, scambiando per la Casa dello Studente un palazzo ridotto a un metro di altezza.
Viene alla mente quell’episodio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto in cui il mago Atlante intrappola nei castelli incantati Ruggiero ed altri paladini. Ritorna ancora a casa, confessando di non sapere nemmeno lui perché. Torna allora lungo il Corso e apprende della morte di Lucilla, una donna conosciuta a motivo del suo lavoro editoriale, e ammirata da Umberto soprattutto per la sua statura morale. Lucilla abitava vicino alla villa comunale, in una strada adiacente a Viale di Collemaggio, in uno di quei posti dove quella notte l’Angelo della Morte ha colpito più duramente. E’ da questo momento in poi che Umberto ha l’impressione di vedere il Male che agisce con una sua consapevolezza, il demiurgo malvagio che si sceglie le sue vittime tra le persone buone. Gli pare di riconoscerlo anche in un cane che viene salvato insieme alla madre e alla nonna. Le persone che incontra non mancano di informarlo del numero dei morti che continua crescere. Poco dopo apprende la tragedia del suo amico giornalista Giustino Parisse.
E torna qui il tema, questa volta prepotentemente, di un Mostro che abbia scelto con cura le sue vittime, cioè tra le persone migliori che egli abbia conosciuto. La stessa Prefettura che ospita la Protezione Civile gli ricorda la Pequod, il vascello affondato da Moby Dick nel celebre romanzo di Herman Melville. Come non scorgere, in questa cronaca notturna, insieme ad un diario esistenziale, un orizzonte metafisico, o comunque un… “meta”…, un “oltre” ?
Ciò che a prima vista emerge prepotentemente dai pensieri confidati dall’autore è un qualcosa che fa pensare all’antica dottrina gnostica, sia pure di una gnosi che non ha ancora identificato l’oggetto della sua conoscenza, ma che ha comunque a che fare con il destino dell’uomo. Ci sono, nel racconto, molti motivi di questa antica eresia cristiana che non si è mai spenta. Questo mondo, che è dominato dal male, secondo il pensiero gnostico non è opera di Dio, ma di un demiurgo malvagio, un Dio del Male che appare vincitore. Il Male tiene in scacco il Bene. Questo concetto Umberto Dante lo esprime chiaramente e ripetutamente: “Perché proprio Lucilla? All’Aquila una persona più buona non esiste…; perché Giustino Parisse?”, alla cui casa, qualche tempo prima, dice di aver visto in scena – scrive con espressione densa di significato – “la bellezza della bontà” … Tuttavia gli viene di pensare che se il Male esiste e ne facciamo in continuazione esperienza, deve esistere pure un modo di pensare e di agire che va nella direzione opposta a quella del Male.
Nelle prime pagine, riferendosi ad un incontro con il Presidente della Regione Abruzzo, si lascia persino scappare, tra l’ironia e la confessione intima, la seguente frase: “Se sentissi Dio lo pregherei anche più intensamente di quanto lo prega D’Alfonso, rischiando anch’io di farmi male al gomito per via della postura”. Altra idea ricorrente presso gli gnostici è quella di essere stati gettati nel mondo, idea che sarà ripresa da quel moderno gnostico che è stato Jean Paul Sartre, che ha parlato addirittura di “oscenità di essere proiettati nella scena del mondo”. Sono, in fondo, le stesse domande che quella notte si fa l’ “Io” spaesato dell’autore del racconto.
Volendo però entrare nel cuore del tema che Umberto Dante pone, non si può non ravvisare nel libro ciò che l’autore forse non osa confessare a se stesso e che avrà sfiorato la sua mente mentre accarezzava i ricordi di quella terribile nottata, e cioè che la vera dicotomia che sottende quella di Bene-Male, più coerente con quell’orizzonte che intravede (quell “oltre”, quel “meta”) sia in realtà la scelta di fronte a un bivio, la scelta, che può assumere il valore di una scommessa, tra l’assurdo e il mistero, tra l’assurdo di un male senza senso, più inaccettabile del male stesso, e il mistero di un senso che non vediamo ma che ci pare a volte di intuire.
Umberto Dante conclude il suo scritto riportando la più filosofica delle poesie di Giacomo Leopardi, che al poeta di Recanati fu suggerita dall’eruzione del Vesuvio, “La ginestra”; ma nel trascriverla si ferma al punto in cui l’autore ironizza sulle “magnifiche sorti e progressive” che s’infrangono sulla forza sterminatrice della natura. Subito dopo Leopardi se la prende con il “secol superbo e sciocco”, il romantico e ottimistico Ottocento, e invita a volgersi indietro, al secolo del razionalismo, il secolo in cui Voltaire, di fronte al terribile terremoto di Lisbona, irride, giustamente, a Leibniz e alla sua teoria del migliore dei mondi possibili, ma non sa poi dar conto, con il suo razionalismo, della terribile realtà del male. La filosofia esistenziale di Voltaire è racchiusa nelle parole finali del Candide – Coltiviamo il nostro orto, meglio dimenticare lavorando -, parole che suonano molto bene, non prive di un certo slancio lirico, ma dal contenuto filosofico assai modesto.
A me pare, in termini di pensiero, che il vero bivio filosofico della modernità è tra David Hume, con il suo scetticismo che non teme smentite ma che preclude la strada ad ogni risposta di senso e è destinato ad avvolgere tutti i pensieri deboli di questa nostra età, e Blaise Pascal, il filosofo della scommessa esistenziale, il pensatore che, optando per la trascendenza, tiene in piedi un orizzonte di ricerca e di speranza.
I terremoti come quello dell’Aquila, insieme all’esigenza di una ricostruzione fisica e del tessuto sociale, ripropongono forse come nessun altra sciagura collettiva, una forte domanda di senso. Ce lo ricorda assai bene Umberto Dante con questo suo libretto, “Via Cascìna 20”, che mostra di concepire la ricerca metafisica come sfida permanente al solipsismo sempre incombente nelle nostre vite, oltre che come credibile alternativa alle utopie politiche e sociali, che forse in altra età egli stesso ha coltivato.
La metafisica, dunque, come sfida di libertà.
Giuseppe Lalli, 21 maggio 2018