L’arte ai tempi di Erdogan: musei rasi al suolo e gallerie chiuse
Il commento di Marta Ottaviani (La Stampa) sul giro di vite autoritario in Turchia che coinvolge anche la musica, il teatro e le arti figurative.
Passa anche dall’arte il progetto del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, di dare vita a una nuova identità nazionale, più conservatrice e religiosa. Negli ultimi due anni, soprattutto dopo il fallito golpe del luglio 2016, sono stati diversi gli episodi che hanno dimostrato come la virata autoritaria si sia abbattuta anche sulla musica, il teatro e le arti figurative. Di contro, nel Paese, stanno nascendo nuovi punti di riferimento culturale, destinati a influenzare, sul lungo termine, il sentire e gli orientamenti della popolazione.
Tutto giù per terra
L’ultimo, solo in ordine di tempo, è stato il celebre Atatürk Kültür Merkezi, nel cuore di Istanbul, il simbolo per eccellenza della vita culturale della vecchia Turchia laica e difeso strenuamente durante le proteste di Gezi Parki nel 2013. Lo hanno demolito la settimana scorsa, per fare posto a un nuovo complesso e terminare così il progetto di riqualificazione di Piazza Taksim, una delle più importanti della megalopoli sul Bosforo, per decenni simbolo della vita all’occidentale e che adesso vede sorgere sulla sua superficie anche una moschea, che sarà inaugurata a breve. Vita nuova anche per la Istanbul Modern, le cui collezioni sono state temporaneamente trasferite nel quartiere di Beyoglu e che farà parte del nuovo complesso che sorgerà a Karaköy, sulla sponda europea del Bosforo. Si chiamerà Galataport e vi parteciperanno i più importanti nomi dell’architettura internazionale. L’ennesimo maxi progetto destinato a cambiare il volto della città, ma soprattutto ad affermare la forza del nuovo ordine costituito.
Percorsi interrotti
Fra il 2016 e il 2017 alcuni episodi hanno gettato ombre sulla vivacità e la libertà della scena artistica, almeno quella ufficiale. La galleria Rampa, che aveva aperto i battenti a Istanbul nel 2009, quando la città era definita la “New York del Medio Oriente”, ha chiuso. Il direttore del Salt, uno degli spazi espositivi più interessanti della megalopoli sul Bosforo, Vasif Kortun, si è dimesso. Nonostante Kortun abbia sottolineato che si trattava di una scelta dettata dalla necessità di dedicare più tempo alla scrittura, a nessuno sono sfuggite le sue dichiarazioni dopo il golpe del 2016, in cui definitiva la Turchia di Erdogan «un posto sempre più difficile in cui vivere». Sempre nel 2016 ha chiuso i battenti la Biennale di Canakkale, sulla costa egea, con l’allontanamento della sua storica curatrice, Beral Madra, entrata in contrasto con un deputato dell’Akp, il partito di Erdogan. Nel 2017, la celebre Biennale di Istanbul, guidata per l’occasione dagli artisti scandinavi Elmgreen & Dragset, è stata giudicata troppo tiepida per quanto riguarda temi scottanti come la censura e la libertà di pensiero.
Una sensibilità mutata
Il popolo turco ci mette del suo. A dicembre 2016 una scultura intitolata Kostantiniyye, dall’antico nome della città, dell’artista turco curdo Ahmek Gunestekin, posta davanti a un centro commerciale nella parte asiatica di Istanbul, è stata coperta durante la notte e poi rimossa perché alcuni abitanti hanno detto che offendeva il passato del Paese. Un anno dopo, la statua ritraente un uomo nudo dell’artista austriaco Ron Mueck, ed esposta in una dimora storica ottomana, è stata attaccata da alcuni esponenti vicini agli ambienti religiosi. Sempre la sensibilità verso la fede islamica ha fatto censurare un’installazione su un tetto di Istanbul, che recitava «finisci la tua mela, Eva». E se qualcosa finisce, altro inizia. La megalopoli sul Bosforo quest’anno ha ospitato la prima edizione della Yeditepe Bienali, che ha goduto dell’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica e che ha avuto un grande successo di pubblico. L’obiettivo è dare nuovo vigore e fare conoscere a una platea sempre più vaste le «arti classiche turche» anche quelle derivanti dall’artigianato, dove i motivi derivanti dalla religione islamica e dalla storia ottomana sono quelli predominanti.
Marta Ottaviani, La Stampa 4 giugno 2018