Quanto è democratico l’Euro?
L’economista Dani Rodrik, docente di politica economica internazionale all’Università di Harvard, interviene su un tema di stretta attualità, soprattutto in Italia.
Quando di recente il presidente italiano ha posto il veto alla nomina dell’euroscettico Paolo Savona a ministro delle Finanze del governo proposto dall’alleanza Movimento Cinque Stelle – partito della Lega, egli ha salvaguardato o messo in pericolo la democrazia del suo paese? Al di là degli specifici vincoli costituzionali del contesto italiano, la questione va al cuore della legittimità democratica. I difficili temi che essa solleva devono essere affrontati in modo corretto e appropriato, se si intende risanare le nostre democrazie liberali.
L’euro rappresenta un impegno assunto con un trattato da cui le vigenti regole del gioco non prevedono una chiara via d’uscita. Il presidente Sergio Mattarella ed i suoi difensori sottolineano che la fuoriuscita dall’euro non era stata oggetto di dibattito nel corso della campagna elettorale che ha portato al potere la coalizione populista, e che la designazione di Savona rischiava di comportare un crollo del mercato finanziario ed il caos economico. I detrattori di Mattarella sostengono invece che egli ha travalicato le prerogative della sua autorità ed ha permesso ai mercati finanziari di porre il veto alla scelta di un ministro da parte di un governo eletto dal popolo.
Con l’adesione all’euro, l’Italia ha ceduto la sovranità monetaria ad un decisore esterno indipendente, la Banca Centrale Europea. Il paese ha inoltre assunto impegni specifici riguardo alla conduzione della propria politica fiscale, sebbene questi vincoli non siano “hard” come quelli che inquadrano la politica monetaria. Questi obblighi pongono limiti reali alle scelte di politica economica delle autorità italiane. In particolare, l’assenza di una valuta nazionale significa che gli Italiani non possono scegliere il proprio obiettivo di inflazione, o svalutare la propria valuta rispetto a quelle estere. Gli Italiani devono inoltre mantenere i loro deficit fiscali al di sotto di determinati massimali.
Tali vincoli esterni sull’azione politica non devono porsi in contrasto con la democrazia. A volte ha senso che l’elettorato si leghi le mani quando ciò aiuta ad ottenere risultati migliori. Da qui il principio della “delega democratica”: le democrazie possono migliorare le proprie prestazioni delegando aspetti del processo decisionale ad istituzioni indipendenti.
Il caso canonico di delega democratica sorge quando c’è un bisogno fondamentale di impegno credibile su una particolare linea d’azione. La politica monetaria è forse l’esempio più chiaro di questo. Molti economisti condividono l’opinione secondo cui le banche centrali possono generare vantaggi in termini di produzione e occupazione attraverso politiche monetarie espansive solo se sono in grado di produrre inflazione a sorpresa nel breve periodo. Ma poiché le aspettative si adeguano ai comportamenti delle banche centrali, una politica monetaria discrezionale è inutile: produce un’inflazione più elevata, ma non aumenta la produzione o l’occupazione. Di conseguenza, è molto meglio isolare la politica monetaria dalle pressioni politiche delegandola a banche centrali tecnocratiche e indipendenti che sono incaricate del singolo obiettivo della stabilità dei prezzi.
Superficialmente, l’euro e la BCE possono essere considerati la soluzione a questo enigma inflazionistico nel contesto europeo. Proteggono l’elettorato italiano dalle controproducenti inclinazioni inflazionistiche dei loro politici. Ma ci sono delle peculiarità della situazione europea che fanno aumentare i dubbi riguardo al dibattito sulla delega democratica.
Da un lato, la BCE è un’istituzione internazionale, responsabile della politica monetaria per tutta l’eurozona, e non solo per l’Italia. Di conseguenza, la Banca Europea sarà generalmente meno sensibile alle circostanze economiche italiane di quanto non lo sarebbe stata una banca centrale puramente italiana, ma ugualmente indipendente. Questo problema è aggravato dal fatto che la BCE sceglie il proprio obiettivo di inflazione, che è stato definito l’ultima volta nel 2003 “inferiore ma prossimo al 2% nel medio termine”.
È difficile giustificare la delega dello stesso target di inflazione a tecnocrati non eletti. Quando alcuni paesi dell’eurozona sono colpiti da shock avversi della domanda, il target determina l’entità della dolorosa deflazione di salari e prezzi che questi paesi devono subire per ristabilirsi. Più basso è l’obiettivo inflazionistico, maggiore è la deflazione che devono sopportare. Per la BCE vi erano valide ragioni economiche di rialzare il proprio obiettivo di inflazione in seguito alla crisi dell’euro per facilitare gli adeguamenti in termini di competitività dell’Europa meridionale. In questo caso, l’isolamento dalla responsabilità politica è stato probabilmente un fattore negativo.
Come Paul Tucker, ex vice governatore della Banca d’Inghilterra, argomenta nel suo ultimo e magistrale libro Unelected Power: The Quest for Legitimacy in Central Banking and the Administrative State, la motivazione a favore della delega democratica è sottile. La distinzione tra obiettivi politici e modalità di implementazione deve essere chiara. Poiché gli obiettivi politici comportano conseguenze distributive o compromessi tra finalità conflittuali (occupazione rispetto a stabilità dei prezzi, per esempio), essi devono essere determinati attraverso processi politici. La delega è garantita al meglio nella conduzione di politiche che perseguono obiettivi definiti in base a considerazioni politiche. Tucker sostiene, correttamente, che poche organizzazioni indipendenti si basano su un’attenta applicazione di principi in grado di superare la prova della legittimità democratica.
Questo limite è molto peggiore nel caso di delega ad istituzioni o a trattati internazionali. Troppo spesso, gli impegni economici internazionali non servono a correggere carenze democratiche interne, ma a privilegiare interessi aziendali o finanziari, e possono compromettere relazioni sociali nazionali. Il deficit di legittimità dell’Unione Europea deriva dal diffuso sospetto che le sue disposizioni istituzionali si siano spostate troppo dalla prima sfera di interessi verso la seconda. Quando Mattarella ha menzionato la reazione dei mercati finanziari nel giustificare il suo veto su Savona, ha rafforzato questi sospetti.
Se l’euro, e in effetti la stessa UE, devono rimanere vitali e democratici allo stesso tempo, i responsabili delle politiche dovranno prestare maggiore attenzione ai requisiti altamente elevati necessari a delegare le decisioni a corpi non eletti. Ciò non significa che i policymaker debbano opporsi a tutti i costi alla cessione di sovranità ad agenzie sovranazionali. Ma dovrebbero riconoscere che le preferenze politiche di economisti ed altri tecnocrati raramente conferiscono alle politiche adeguata legittimità democratica. Dovrebbero promuovere tale delega di sovranità solo quando essa migliora realmente le prestazioni a lungo termine delle loro democrazie, non quando porta semplicemente avanti gli interessi delle élite globaliste.
(Dani Rodrik, project-syndicate giugno 2018)
*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Politica Economica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.