Una rievocazione storica di una vicenda poco conosciuta nel periodo dei gulag staliniani in Unione Sovietica (da La Stampa).

In un isolotto sperduto nel cuore della Siberia, 85 anni fa si consumò uno dei più atroci crimini dello stalinismo. È un episodio di cui si sa poco, ma che gli abitanti locali ricordano ancora con orrore, tanto che quella piccola striscia di terra in mezzo al fiume Ob in cui morirono migliaia di persone è ormai ricordata da tutti come l’Isola dei Cannibali.

La repressione stalinista
Siamo nel 1933. In Unione Sovietica è in atto una sanguinosa caccia alle streghe contro ogni forma di dissenso, vero o inventato. Nei territori più remoti si moltiplicano i gulag, dove i condannati sono sottoposti a lavori forzati in condizioni disumane a cui spesso è impossibile sopravvivere. Il regime comunista si organizza per sfruttare come schiavi milioni di persone. Il capo della polizia politica Genrikh Yagoda – poi a sua volta vittima delle purghe – vuole ripulire le città dai più disparati «elementi indesiderati» spedendoli a coltivare la terra nella gelida Siberia e nelle steppe kazake. Si tratta di senzatetto, piccoli criminali, prostitute, membri della vecchia intellighenzia caduti in disgrazia, contadini che fuggono dalle carestie provocate dalla collettivizzazione forzata e persino di semplici cittadini fermati senza un documento d’identità.

L’isola-lager
A maggio i campi di lavoro nella zona di Tomsk erano sovraffollati e così 3.000 deportati furono fatti sbarcare nella piccolissima isola di Nazino. Altri sarebbero arrivati poco dopo. Erano in tanti su un territorio minuscolo, lungo tre chilometri e largo 600 metri. Non avevano né cibo né strumenti di lavoro, ma neanche un tetto per ripararsi. Le temperature erano sotto lo zero. Una trentina di deportati erano già morti durante il viaggio, lungo ed estenuante. L’ordine era di costruire un insediamento temporaneo, ma molti erano già allo stremo delle forze. Centinaia tentarono di scappare, ma pochi ci riuscirono: la maggior parte dei fuggitivi fu uccisa a fucilate dalle guardie o annegò nelle acque paludose che circondavano l’isola. Si moriva di freddo e di fame. Dopo quattro o cinque giorni, sull’isola arrivarono dei sacchi di farina di segale. Tra i prigionieri scoppiarono delle risse furibonde per accaparrarseli. Ma non c’erano forni, e così la gente riempiva cappelli e cappotti con la farina e la mangiava mescolandola all’acqua del fiume. Il risultato fu che presto dilagarono tifo e dissenteria. 

La sopravvivenza
I primi casi di cannibalismo si registrarono dopo dieci giorni. I deportati cominciarono a nutrirsi di chi moriva e a uccidere per mangiare. I documenti conservati nel Museo del Gulag di Tomsk riportano l’interrogatorio di un criminale sull’isola. Gli viene chiesto se davvero si sia nutrito di carne umana. «No – risponde – ho mangiato solo cuori e fegati. Li tagliavamo a pezzi e li arrostivamo su degli spiedi fatti con i rami dei salici». L’uomo spiega poi che le vittime venivano scelte tra coloro che stavano per morire. «Era ovvio – dice – che stavano per andarsene, che sarebbero deceduti in uno o due giorni. Così per loro era più facile. Senza soffrire per altri due o tre giorni». Alcune testimonianze narrano di donne legate agli alberi e a cui gli altri prigionieri tagliavano via i polpacci o il seno per cibarsene.

La storia nascosta
La tragedia di Nazino fu nascosta dalle autorità sovietiche per decenni, fino all’avvento della perestrojka. Quando, nel luglio del 1933, i deportati furono mandati via, l’isola era piena di cadaveri. Solo 2.200 persone su 6.700 erano ancora in vita.

Giuseppe Agliastro, La Stampa 9 luglio 2018

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