Diversi nuovi romanzi si rifanno all’antica dottrina spirituale per decifrare il lato inspiegabile del mondo. Le recensioni di Elena Loewenthal per La Stampa.

Lev, uno dei protagonisti del romanzo della canadese Sigal Samuel I mistici di Mile End, è un ragazzino attento alla realtà che lo circonda. Infatti è intrigato dall’albero della conoscenza, quello che costò ad Adamo ed Eva la famigerata cacciata. Che frutto darà mai? Lui stila liste ipotetiche, procedendo per esclusioni: le pesche no, ad esempio, perché «vengono dalla Cina e il Giardino dell’Eden mi sa che era in Israele». Neanche le fragole o i cocomeri, «perché non crescono sugli alberi»… Nel racconto c’è anche un’altra lista, quella di «tutti i silenzi che conosco e dove si possono trovare»: sono quindici, dalla «biblioteca» a «la mattina presto, quando tutti dormono ancora», per finire con «dopo la pioggia».

Più degli altri personaggi di questo brillante romanzo, più dell’atmosfera mistica che sta già nel titolo, Lev incarna le grandi domande che l’ebraismo si pone sul mondo e su Dio e soprattutto la consapevolezza che tanto nel mondo quanto in Dio c’è molto più inconoscibile che certezza. Sigal Samuel sa il fatto suo perché è figlia di un professore di Qabbalah e considera la scrittura e la lettura una «pratica spirituale». E non a caso tutto il romanzo, con le sue diverse voci , si snoda intorno a quell’albero atavico che ci ha dato tanti guai, ma anche la vita – e la consapevolezza più fondamentale di tutte: quella di essere mortali. Mangiare quel frutto ci è costato tanto, ed è forse anche per questo che l’amore – anche per i ricordi – è la forza che guida tutto ma è sempre, irrimediabilmente, destabilizzante. 

La tradizione ebraica postula quattro diversi metodi interpretativi del testo sacro, cioè dello scrigno in cui la verità sta racchiusa. Questi quattro approcci alla parola biblica formano l’acrostico Pardes – cioè «paradiso» – e procedono dal senso letterale verso quello simbolico, che in ebraico è detto Sod, cioè «segreto». Quest’ultimo è il terreno della Qabbalah, cioè la mistica ebraica: esplorare i mistero del creato e del Creatore, in cerca del senso più profondo da cogliere.

Qabbalah è una parola che originariamente significa solo «cosa ricevuta» (così si chiede il conto al ristorante in Israele, ad esempio), ma che ha assunto dal Medioevo in poi i connotati di un’esplorazione iniziatica nella parola sacra: tanto è vero che nel Talmud è detto che può affrontarla solo chi ha più di 40 anni ed è maschio. Non tanto per misoginia quanto perché questa disciplina intellettuale deve avere per presupposti una profonda competenza lessicale e una lunga consuetudine di studio.

Ma i tempi cambiano e oggi la Qabbalah diventa il fil rouge di una narrazione ebraica contemporanea a più voci. Yaniv Izckovits è uno scrittore israeliano, un suo romanzo (Batticuore) è uscito in italiano per Giuntina nel 2010, e oggi Neri Pozza pubblica Tikkun. In questa storia ambientata nella Zona di Residenza, là dove lo zar aveva confinato tutti gli ebrei dell’Impero, ci sono molti colpi di scena. C’è molto sangue. C’è una donna giovane e coraggiosa che viene da una stirpe di macellatori rituali ed è capace di passare il coltello nel punto esatto del collo dell’animale. Ma un giorno parte per un viaggio che deve fare giustizia, anzi riparare un guasto perché, dice la Qabbalah, tutti dobbiamo lasciare un po’ migliore di come l’abbiamo trovato questo mondo che nasce dalla «lesione» dell’onnipresenza divina. Bisogna ricomporre i cocci di quella frattura primigenia, perché trionfi il bene. Ma c’è in questo romanzo soprattutto un alone di mistero che tutto circonda, e succedono cose che non è dato capire né con la ragione né con il cuore.

Proprio come in Satana a Goraj del grande Isaac Bashevis Singer, che Adelphi riporta in libreria in questi giorni, e dove tutto è oscuro, inquietante, inspiegabile. Il mondo è un codice da decifrare, e ai più non è data la chiave. Solo la Qabbalah riesce a descriverlo con le sue vertiginose associazioni, la sua capacità di disegnare usando le parole. Se infatti l’ebraismo non ha una tradizione iconografica, la mistica è ciò che più somiglia a un’arte figurativa: usa le parole per costruire un’immagine del mondo fitta di chiaroscuri e di bellezza.

Anche nel monumentale Il peso dell’inchiostro (sempre per Neri Pozza) di Rachel Kadish, autrice di Boston non nuova a grandi affreschi storici, la vicenda è intrisa di mistero: ci sono antichi manoscritti da decifrare, c’è una studiosa che viene catapultata dentro il passato attraverso di essi, ne emerge la storia degli ebrei rifugiatasi nella Londra elisabettiana per sfuggire alle persecuzioni. C’è una misteriosa figura femminile che ha con la scrittura un rapporto quasi proibito, eppure molto fecondo. Anche qui la storia tocca punti delicati. Il femminile. La potenza della parola. La tentazione dell’inconoscibile, l’impulso ad andare sempre più giù – o sempre più su – nella conoscenza, anche là dove brucia.

Elena Loewenthal, La Stampa 14 luglio 2018

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