Il Manifesto degli scienziati razzisti: così si lavorava per costruire l’odio
Il servizio Studi, Documentazione e Biblioteca del Quirinale ha raccolto in un saggio un importante lavoro di documentazione storica sul Manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio 1938. Riproponiamo un brano dalla prima parte, al link nella pagina è possibile scaricare il saggio completo (da La Stampa).
Il Manifesto degli scienziati razzisti (noto anche come Manifesto della razza) fu pubblicato originariamente in forma anonima sul Giornale d’Italia il 14 luglio 1938 col titolo Il Fascismo e i problemi della razza. Successivamente, il 25 luglio 1938, un comunicato stampa a firma del Segretario generale del Partito Nazionale Fascista, Starace, nel contestualizzare e motivare il decalogo razzista attribuì a 10 scienziati l’elaborazione del testo o, comunque, asseverò la loro piena condivisione alla tesi enunciata.
«Il ministro Segretario del Partito ha ricevuto un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane, che hanno sotto l’egida del Ministero della Cultura popolare redatto o aderito alle proposizioni che fissano la base del razzismo fascista. Erano presenti i fascisti dott. Lino Businco, assistente di patologia generale nell’Università di Roma, prof. Lidio Cipriani, incaricato di antropologia nell’Università di Firenze direttore del Museo Nazionale di antropologia ed etnologia di Firenze, prof. Arturo Donaggio, direttore della clinica neuropsichiatrica dell’Università di Bologna, presidente della Società italiana di psichiatria, dott. Leone Franzi, assistente nella clinica pediatrica dell’Università di Milano, prof. Guido Landra, assistente di antropologia nell’Università di Roma, sen. Nicola Pende, direttore dell’Istituto di patologia speciale medica dell’Università di Roma, dott. Marcello Ricci, assistente di zoologia all’Università di Roma, prof. Franco Savorgnan, ordinario di demografia nell’Università di Roma, presidente dell’Istituto centrale di statistica, on. Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e direttore dell’Istituto nazionale di biologia presso il Consiglio nazionale delle ricerche, prof. Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di zoologia dell’Università di Roma. Alla riunione ha partecipato il ministro della Cultura Popolare». Il Manifesto, corredato del comunicato di cui sopra, venne ripubblicato sulla rivista La difesa della razza del 5 agosto 1938.
La storia del Manifesto è stata ricostruita sulla base di un memoriale di Guido Landra del 7 settembre 1940. Landra ricordava che, nel febbraio 1938, dopo avere fatto pervenire a Mussolini alcuni suoi appunti sul razzismo, fu convocato dal Ministro della Cultura popolare Alfieri e gli fu affidato il compito di costituire un comitato per lo studio e l’organizzazione della campagna razziale. Esperto di antropologia con un incarico di assistente presso l’omonima cattedra dell’Università di Roma, Landra si era distinto per le sue teorie sul razzismo con particolare riferimento a quello coloniale.
Così si rivolse in una lettera Guido Landra direttamente a Mussolini: «Duce, nel febbraio del 1938 Voi, avendo approvato alcuni miei appunti contenenti dei consigli tecnici per il razzismo, mi faceste chiamare dal Ministro Alfieri e mi incaricaste di costituire un comitato scientifico per lo studio e l’organizzazione della campagna razziale. … Lo stesso giorno il Ministro Alfieri mi aggiunse le sue direttive e mi incaricò di fissare per iscritto i punti essenziali del Vostro pensiero in materia razziale: questo io feci immediatamente riunendo in una specie di decalogo le Vostre direttive. (…) in tal modo veniva fatalmente superato il periodo di studio preparatorio, perché il razzismo italiano aveva già trovato la sua espressione più vera ed originale essendosi il Manifesto ispirato direttamente al Vostro pensiero».
Il 24 giugno 1938 Landra fu quindi ricevuto dal Duce, che gli illustrò la sua personale posizione circa la questione razziale e gli prospettò l’intenzione di creare presso il Ministero della Cultura popolare un Ufficio Studi sulla razza, con l’obiettivo di mettere a punto entro pochi mesi i principi fondamentali per iniziare la campagna razziale in Italia.
Landra si mise subito all’opera e redasse in poco tempo il Manifesto del 14 luglio. Il contenuto del comunicato stampa del Segretario del PNF Starace diramato il 25 luglio del 1938 ha dato adito a diverse interpretazioni. Alcuni studiosi con a capo Renzo De Felice3 hanno sostenuto che i dieci scienziati indicati nel comunicato stampa, pur non opponendosi alla deriva razzista, non furono in realtà gli estensori materiali del Manifesto. Una seconda ricostruzione storiografica, più recentemente elaborata da Franco Cuomo e anche da altri sostenuta4, tende invece ad attribuire la piena e convinta adesione al decalogo razzista da parte dei dieci studiosi: «i professori che firmarono il Manifesto della Razza».
Quanto alla prima interpretazione del ruolo degli scienziati si sceglie qui di riportare un contributo del professor Roberto Sinigaglia del 2013, “Le leggi razziali del 1938 in Italia”, che non si discosta in modo significativo dal citato memoriale di Guido Landra:
«Nelle originarie intenzioni del Duce, quello che sarebbe passato alla storia come il Manifesto della razza sarebbe dovuto risultare il momento conclusivo di una riflessione collettiva condotta da un comitato di professori universitari. Ma Mussolini aveva fretta e, in spregio a ogni principio di collegialità, il 24 giugno convocò soltanto il giovanissimo Guido Landra, un docile e assai ambizioso assistente di antropologia dell’Università di Roma scelto come coordinatore del comitato, e gli dettò una sorta di decalogo. Nasceva così il manifesto del razzismo italiano. Prima della sua pubblicazione, i membri di questo comitato, che peraltro non avevano partecipato all’elaborazione, furono invitati a dare il loro sostegno. (…) Grande fu lo sconcerto di questi docenti di fronte al testo loro sottoposto, tanto che Sabato Visco, che con Pende era la figura più eminente dal punto di vista accademico e politico, sbottò indignato esclamando: «non avalleremo le castronerie di qualche giovane cui abbiamo avuto il torto di conferire la laurea uno o due anni fa!». Ma, informato da Dino Alfieri, Ministro della Cultura popolare, che l’autore delle “castronerie” altri non era che Mussolini medesimo, Visco moderò subito i toni e il gruppo si sciolse senza produrre alcunché. Qualche giorno dopo i nomi dei cattedratici apparvero sulla stampa come autori del Manifesto. Coinvolgendo così i docenti, recalcitranti su alcuni contenuti scientifici del documento, ma servili nei confronti del Regime, Mussolini era riuscito a escludere dalla discussione i membri del partito, dando al contempo un’autorevolezza scientifica al Manifesto. Tanto che Starace, Segretario del partito, confessò a Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione nazionale, la propria forte irritazione. L’ala antisemita minoritaria, invece, rappresentata da Giovanni Preziosi, Julius Evola, Paolo Orano, Roberto Farinacci, plaudì vivacemente all’iniziativa».
Con il suo saggio del 2005 Franco Cuomo, invece, presentando una ricca documentazione storica sull’adesione dei dieci scienziati alla teoria della razza e ai suoi concreti sviluppi di carattere politico e legislativo, sostiene che queste personalità accettarono con atto personale e volontario di figurare quali firmatari del Manifesto.
Riguardo alla dottrina addotta a sostegno delle tesi discriminatorie su base razziale, è opportuno specificare che i dieci studiosi non avevano la medesima impostazione sul razzismo. Infatti, accanto ai fautori del razzismo biologico (tesi che faceva soprattutto capo a Landra e Cipriani, secondo la quale contano soltanto la carne e il sangue oltre al legame ereditario ad essi collegato), si distinguevano i sostenitori del nazional–razzismo (Pende e Visco, i due più autorevoli firmatari del Manifesto), dottrina intimamente connessa ai concetti di nazione, di civiltà e popolo che condivide lingua, storia, cultura e tradizioni: secondo questo filone, solo chi è nato in Italia da genitori e da progenitori italiani, solo chi ha respirato sempre aria italiana può dirsi italiano. È il concetto di stirpe: la comunità nazionale è una famiglia allargata legata sì da vincoli biologici, ma anche da una storia, da un territorio, da valori comuni.
In un primo momento, tenuto conto della personale posizione di Mussolini, nel Manifesto fu affermato che il «concetto di razza è un concetto puramente biologico».
Il 16 agosto dello stesso anno, Mussolini chiamò Landra a dirigere il neo costituito Ufficio studi e propaganda della razza presso il Ministero della Cultura popolare, dal quale fu rimosso nel febbraio 1939 quando il Duce, anche a seguito delle pressioni di Pende e Visco, abbracciò la tesi del nazionalismo-razzismo basata sugli gli elementi di carattere storico, culturale e spirituale che contraddistinguevano la razza italica. Il mero concetto biologico infatti non era più in linea con l’ortodossia fascista della razza, che aveva come corollario imprescindibile la distinzione tra la politica razziale italiana e quella tedesca. Guido Landra fu così sostituto con Sabato Visco.
Sulle modalità di incarico e sui criteri per la stesura del testo del Manifesto vi è anche la testimonianza di Galeazzo Ciano, che nel suo Diario riportò «il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulla questione della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi sotto l’egida della Cultura popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui». Anche Bottai nelle sue memorie fece riferimento al Manifesto come testo scritto dallo stesso Duce.
Per completezza, va rilevato che anche la dottrina del razzismo esoterico contribuì a dare fondamento alla politica razzista del regime fascista. La teoria ha come presupposto la tripartizione dell’essere umano in corpo, anima e spirito e sulla priorità di quest’ultima dimensione spirituale rispetto a quella biologica e psichica. Ciascuna delle tre dimensioni venne studiata da una branca specifica delle teorie razziste: teorie biologiche per il corpo, teorie psicoantropologiche per l’anima e teorie mistiche per lo spirito. Ideatore della teoria del razzismo esoterico8 fu Julius Evola, un intellettuale poliedrico apprezzato da Mussolini per le sue posizioni sul ritorno alla romanità. Evola fondò la scuola del razzismo esoterico, che si distaccava dai metodi empirici di una definizione strettamente biologica della razza e da quelli più ideali di un razzismo storico-nazionale: le vere origini della diseguaglianza razziale andavano ricercate in una tradizione spirituale basata su miti e leggende di un’antichità sempre attuale, dalla quale trarre supporto per una teoria estrema del superominismo.
Al di là di ogni fondamento antropologico e filosofico elaborato a sostegno del Manifesto della Razza, le teorie discriminatorie assolvevano a due precise funzioni sociali e politiche. L’una, che verrà più ampiamente illustrata in seguito, di carattere geopolitico, cioè il consolidamento dell’Impero anche attraverso la valorizzazione della purezza della razza italica. In secondo luogo, per il Duce nel 1938 l’antisemitismo si presentò come una carta da giocare per rilanciare la dinamica del sistema politico da cui doveva uscire l’Uomo nuovo fascista. Già nel novembre del 1937 Mussolini dichiarava a Ciano: «Quando finirà la Spagna, inventerò un’altra cosa; ma il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento».
Nelle sue memorie Julius Evola, principale teorico del razzismo “all’italiana”, individuava nella ricerca dell’Uomo nuovo la motivazione fondamentale dell’adozione delle leggi razziali. Fino alla caduta del fascismo, il destino di circa 45.000 ebrei d’Italia fu in mano ai militanti fascisti, ai responsabili politici e amministrativi. La macchina organizzativa della persecuzione diede prova della sua efficienza.
Le caratteristiche del Manifesto
Il Manifesto della razza si articola in 10 brevi assunti scritti in modo chiaro, semplice ed efficace per essere rivolti a un vasto pubblico, con un notevole crescendo retorico.
Si parte dal principio della esistenza delle razze umane, intesa come un fenomeno materiale percepibile dai sensi e nel quale ricadono intere popolazioni con tratti fisici e psicologici simili su base ereditaria. L’esistenza di distinte razze umane non significa riconoscerne alcune superiori alle altre, bensì affermarne le differenze.
Fin dalle prime parole, nel Manifesto si delinea l’assoluta predominanza dell’approccio biologico, confermato al punto tre del Decalogo e dal quale deriva la teoria della cosiddetta “costituzione razziale”, che spiega la diversità esistente fra i popoli (proporzioni diverse di razze differenti che da tempo antico costituiscono i diversi popoli).
Il Manifesto sancisce l’origine ariana della popolazione italiana e della sua civiltà. Per giustificarla si sostiene che, dopo le invasioni dei Longobardi, non si sono verificati nel Paese altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della Nazione. Se ne conclude che esiste oramai una pura razza ariana che si è formata e sviluppata su una nobile e antica parentela di sangue che unisce da generazioni gli Italiani (punti da 4 a 6).
Secondo alcuni studiosi, il tema della purezza del sangue poteva costituire una visione troppo simile a quella germanica. Per dissipare il sospetto di confusione e per mitigare l’approccio biologico troppo vicino alle teorie naziste, al punto 7 del Manifesto, partendo dal presupposto che oramai «è tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti», si afferma che gli Italiani hanno un modello fisico e psicologico di razza umana europea che si distingue da tutte le razze extra-europee (con conseguente esclusione dell’introduzione in Italia della concezione tedesca del razzismo).
Al punto 8, si sostiene che è necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali ovvero i cosiddetti ariano-nordici del Mediterraneo) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche, stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili. Ne deriva che pur non pronunciando mai il concetto di razza inferiore, esso viene di fatto introdotto al punto 8 (considerata l’inammissibilità di relazioni e simpatie nei confronti delle popolazioni africane e orientali; laddove, al contrario, sono ammissibili soltanto fra razze europee di cui al successivo punto 10).
Corollario della precedente affermazione è quella secondo la quale gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata nel nostro Paese, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi da quelli che hanno dato origine agli Italiani. Gli ebrei appartengono quindi a quelle razze extra europee con le quali gli italiani, per il loro carattere puramente europeo, non possono avere unioni (come stabilito nell’ultimo punto del Manifesto), per evitare l’incrocio con una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
In conclusione, può affermarsi che il Manifesto testimonia la complicità della scienza italiana riguardo alla promozione e alla diffusione della teorie razziste. Settori importanti della ricerca italiana (Demografia e Statistica, Antropologia e Medicina sociale) contribuirono a creare, in quegli anni, una base razionale al problema della diversità e inferiorità di alcune razze rispetto ad altre e alla peculiarità della razza italiana. Gli scienziati ne diedero una giustificazione logica e razionale.
Con il Manifesto fu promossa anche una visione italica del razzismo, distinta da quella nazista. Le basi per difendere questa autonomia e specificità italiana risiedevano proprio nel mondo scientifico. Con tale supporto, il regime avviò senza indugio l’attuazione delle politiche razziste con l’emanazione di un pacchetto organico di provvedimenti che vanno sotto il nome di leggi razziali.
(a cura del Servizio Studi, Documenti e Biblioteca della Presidenza della Repubblica)