L’editoriale del direttore de La Stampa Maurizio Molinari

È il Grande Gioco su Gerusalemme che tiene banco in Medio Oriente: un discorso del re saudita a Dahran, la visita di una delegazione del Bahrein in Israele e l’arresto di alcuni militanti turchi nella Città Vecchia descrivono il braccio di ferro in corso fra Riad e Ankara, portabandiera di posizioni opposte rispetto allo Stato ebraico e all’assetto strategico della regione. 

Con il discorso di Dahran il re saudita Salman si è impegnato a sostenere con almeno 150 milioni di dollari alcune istituzioni religiose musulmane di Gerusalemme al fine di contrastare la crescente presenza di investimenti e militanti turchi dentro la Città Vecchia. La preoccupazione di Riad per le infiltrazioni turche a Gerusalemme, condivisa dai leader di Amman e Ramallah, è stata recapitata attraverso canali diplomatici a Israele, dove nelle ultime settimane sono stati arrestati più cittadini turchi militanti del partito di Recep Tayyp Erdogan che, entrati con regolari visti turistici, andavano sulla Spianata delle moschee per partecipare a proteste e disordini di matrice islamica. Ciò che più preoccupa l’Arabia Saudita sono le acquisizioni immobiliari di società e individui turchi a Gerusalemme perché le interpreta come la volontà di Erdogan di trasformare la Città Vecchia in una trincea della sua politica mediorientale tesa a strappare a Riad la leadership dell’intero mondo sunnita. Ovvero un tassello di una sfida più ampia che vede al momento Riad alla guida di un fronte composto da Bahrein, Emirati Arabi Uniti ed Egitto duellare con Ankara, sostenuta da Qatar e Sudan con alle spalle il gigante sciita dell’Iran.  

Non a caso a condividere i timori sauditi sulle mire di Erdogan a Gerusalemme sono Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, i due Paesi del Golfo protagonisti delle più evidenti aperture allo Stato ebraico. 

Manama ha accolto una delegazione israeliana per un recente evento dell’Unesco e una missione di suoi dignitari ha svolto una visita ufficiale a Gerusalemme mentre Abu Dhabi ospita una sede permanente israeliana presso l’Agenzia internazionale per l’energia rinnovabile che svolge il ruolo di ambasciata de facto presso i Paesi del Golfo. E ancora: gli stessi Emirati Arabi Uniti, secondo notizie trapelate su media arabi, sarebbero impegnati a fare acquisizioni immobiliari a Gerusalemme per contrastare le mosse di Ankara operando attraverso Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza palestinese inviso al presidente Abu Mazen. Se a tali tasselli aggiungiamo le insistenti indiscrezioni su un incontro segreto già avvenuto fra il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman e il premier israeliano Benjamin Netanyahu è facile arrivare alla conclusione che le aperture del fronte saudita allo Stato ebraico si sovrappongono al timore che Erdogan voglia sfruttare Gerusalemme per contendere a Riad la guida dei sunniti.  

Tanto più che Ankara, assieme a Doha e Teheran, è il maggior sostenitore economico della Striscia di Gaza governata da Hamas e considerata dall’Egitto di Abdel Farrah al-Sisi un tassello del mosaico islamista-rivoluzionario dei Fratelli musulmani. Insomma, Erdogan punta a cavalcare le istanze palestinesi più ostili a Israele mentre Riad è protagonista di numerose aperture – spesso al riparo dei riflettori – allo Stato ebraico a testimonianza che la questione mediorientale – e in primo luogo Gerusalemme – è uno dei tasselli dello scontro regionale fra i giganti sunniti: i sauditi alleati di Washington e i turchi partner della Nato ma tentati da legami privilegiati con Mosca e Teheran.  

Al centro di questo Grande Gioco su Gerusalemme c’è il Waqf, l’ente religioso musulmano che gestisce la Spianata delle moschee e risponde alla monarchia hashemita di Giordania in forza di un accordo con Israele siglato dopo la guerra del 1967 e riconosciuto dall’Autorità nazionale palestinese. Il saudita Iyad Madani, segretario generale dell’Organizzazione della conferenza islamica, ha visitato la Spianata in gennaio e in precedenza Riad aveva contestato ad Amman la sua gestione arrivando anche a condividere l’iniziativa israeliana – poi rientrata – di posizionare metal detector agli accessi per ostacolare le violenze. Riad non si spinge fino a chiedere di sostituire Amman nella gestione del Waqf ma i generosi aiuti economici – 2,5 miliardi di dollari – versati ad Amman, assieme a Bahrein ed Emirati, per consentire al sovrano di fronteggiare le recenti proteste di massa, potrebbero facilitare un accordo più ampio.  

Un’ipotesi, che rimbalza da Washington, è la presenza di rappresentanti sauditi ed emiratini nel Waqf nell’ambito di un’intesa regionale fra Arabia Saudita ed Israele per tentare di affrontare in maniera inedita il conflitto arabo-israeliano. A dispetto del rivale disegno strategico di Ankara. In attesa di sapere come e quanto il Waqf potrà mutare, possono esserci pochi dubbi sul fatto che in Medio Oriente c’è una novità: la diplomazia religiosa saudita. Ovvero, gli sceicchi custodi dei luoghi santi dell’Islam a Mecca e Medina vogliono impedire alla Turchia erede dei sultani ottomani di insediarsi nella Città Vecchia di Gerusalemme e per riuscirci stanno ponderando una possibile, storica, intesa con lo Stato ebraico. Per questo un alto dignitario saudita ha recentemente detto: «Come arabi dobbiamo riconoscere che Gerusalemme è sacra per gli ebrei come Mecca e Medina lo sono per i musulmani». 

Maurizio Molinari, La Stampa 29 luglio 2018

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