La storia di Navelli nella storia dell’Italia meridionale
Annotazioni di Giuseppe Lalli sul volume “Quelli che hanno dato – Storia del Meridione dal 1860 a oggi” di Antonio Galeota
L’AQUILA – Il 13 agosto scorso, nell’Aula consiliare del Comune di Navelli, con vista sull’antico stupendo borgo, si è svolta la presentazione del volume “Quelli che hanno dato – Storia del Meridione dal 1860 a oggi”, scritto da Antonio Galeota. Come tutte le opere originali, il libro sfugge ad una precisa classificazione di genere. Si tratta di un lungo racconto scritto sotto forma di saggio storico-politico; ma potrebbe essere anche l’abbozzo di una storia sociale dell’Italia meridionale. Lo scritto è percorso da cima a fondo da un vivo senso della giustizia e da un’esigenza di verità. In esso convivono passione civile e rigore storiografico, direi – tanto per entrare in argomento – nella migliore tradizione della cultura meridionale. In più di una pagina, ho avuto l’impressione di rileggere il Francesco De Sanctis di “Un viaggio elettorale”.
La trattazione è densa, ricca di notizie e di argomenti. Ci s’imparano molte cose. Io vi ho imparato ad apprezzare la figura di Giuseppe Garibaldi, sulla quale non avevo mai riflettuto a fondo. L’autore ce lo presenta come un personaggio di spessore a tutto tondo: non solo il grande condottiero e stratega militare che tutti abbiamo conosciuto nei libri di storia, ma anche l’uomo che pensa in maniera politica, che è disposto ad accantonare il suo repubblicanesimo e il suo radicalismo sociale convinto com’è che l’unità politica della nostra penisola si sarebbe potuta realizzare solo sotto l’egida del Piemonte di Cavour e dei Savoia. Un’altra cosa che ho appreso, nel capitolo dedicato all’emigrazione, quando si riferisce del terribile episodio avvenuto a New Orleans dell’uccisione per linciaggio di alcuni italiani (tra cui il navellese Loreto Còmitis), imputati dell’uccisione di un rappresentante delle forze dell’ordine ed assolti, è quanto, in molti momenti della sua storia, la società americana sia stata percorsa da sentimenti di odio razziale ed etnico, di cui i primi emigrati italiani fecero le spese.
La copertina del libro è assai didascalica. Sotto, sulla falsa riga di un celebre dipinto, “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo, sono raffigurate tutte quelle figure sociali, a partire da una coppia con bambino in braccio, che da sempre tirano la carretta, quelli, appunto, che hanno sempre dato. C’è il contadino, il medico, l’operaio, il carabiniere, insomma quelli che producono vera ricchezza, finanziaria e soprattutto morale. Si tratta, tutto sommato, come nel quadro di Pelizza da Volpedo, di una forza tranquilla. Sopra, invece, è raffigurata tutta quella borghesia che soprattutto nel meridione è vissuta all’ombra della rendita di posizione o, addirittura, ai limiti della legalità.
Goffredo Palmerini, nella prefazione al libro, a proposito di quella ricca articolazione di fatti locali e vicende nazionali che è uno dei tratti caratteristici del libro, evoca appropriatamente la lezione di un grande storico francese, Jaques Le Goff, autore per il quale, nella ricerca storica, fatti come la lingua, le tradizioni, i racconti, i monumenti, insomma tutto ciò che è parte viva di una memoria collettiva, ha la stessa dignità di fonte del documento scritto. A me la lettura del libro ha evocato un altro grande esponente di quella corrente storiografica che va sotto il nome di “Scuola delle Annales “, e cioè Fernand Braudel, che parla di correnti che si muovono nel sottosuolo della storia, processi di lunga durata, che agiscono sotto la superficie della politica e che da questa superficie sono toccate solo parzialmente. Sono quei piani bassi della società, su cui Antonio Galeota, in questo suo libro, getta i riflettori: quei piani abitati, appunto, da quelli che hanno sempre pagato, quelli che, alla fine, fanno la storia vera.
Una delle principali chiavi di lettura di questo saggio, che consta di otto capitoli, va ricercata a mio parere nel capitolo secondo, quello dedicato al brigantaggio e alle politiche dell’Italia postunitaria. È qui infatti che l’autore crede di rintracciare le radici di quella “questione meridionale” che appare tuttora non risolta. Il fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario è, a mio avviso, esemplare di quella visione di lunga gittata di cui si parlava, perché ripropone temi che vanno al di là della stessa vicenda politica dalla quale prese le mosse. I libri di storia “ufficiale” hanno operato, su questo tema, o una rimozione, o, a mio parere, una interpretazione quasi sempre parziale. C’è una storiografia di ispirazione marxista che ha voluto vedere nel brigantaggio una rivoluzione in anticipo, una rivolta sociale che reclamava una dottrina e una guida politica. Da parte liberale, invece, si è preferito spesso sottolineare la strumentalizzazione politica operata dalle vecchie classi dirigenti spodestate: un incidente di percorso.
Nel libro c’è un approccio corretto. Si sottolinea la partecipazione contadina al movimento e si dice che si trattò di una vera e propria guerra civile, combattuta anche “da centinaia di donne in servizio armato permanente”. Si chiarisce che il brigantaggio era sì antiunitario e filoborbonico, ma non per deliberata scelta politica, ma come inevitabile risposta ad un profondo malessere sociale. Una secolare esperienza e un istinto atavico induceva i braccianti e i contadini poveri a diffidare dei cambiamenti, e a vedere nelle stesse richieste costituzionali solo la possibilità data a quella nascente borghesia agraria piccola e grande presente nei municipi e sempre pronta a cambiare cavallo, di accaparrarsi le terre, ed eliminare quelle concessioni, come i diritti di uso civico (pascolo, legnatico, seconda raccolta) che gli aristocratici riconoscevano per antica consuetudine.
I fatti, come si dimostra nel libro, daranno ragione ai contadini: niente più concessioni e, in cambio, tasse e servizio militare obbligatorio. Ma Galeota accenna, sia pure fugacemente, ad una spiegazione più profonda, che richiama quelle correnti sotterranee a cui si accennava. Per paradossale che possa apparire, le plebi meridionali percepiscono il regime borbonico come più equo, e più in sintonia con quel sentimento religioso radicato in quel mondo. Agisce insomma l’autorità di una tradizione secolare, aspetto su cui non si è abbastanza riflettuto. Non si tratta certo di alimentare sentimenti neoborbonici, che sono del tutto estranei, credo, all’autore, ma di aderire, come si diceva, ad un’esigenza di verità.
Se è vero che il processo di unificazione era scritto nel destino della nostra penisola (come aveva capito già Napoleone Bonaparte) e se è altrettanto vero che, in quel contesto determinato, esso poteva essere portato a termine solo dal Piemonte di Cavour e dei Savoia (come era convinto Giuseppe Garibaldi), questo non significa – sembra dire Galeota – che non si potesse agire in maniera diversa. L’alternativa alla famigerata legge che porta il nome di un deputato aquilano, la legge Pica del 1863, che dava all’esercito piemontese i poteri più arbitrari nella repressione del brigantaggio, era attuare “politiche giuste ed equanimi”. Galeota non manca di richiamare il quadro normativo entro il quale si consumò la grande ingiustizia. Un provvedimento a firma del Luogotenente Farini (che nel dicembre del 1862 diventerà Presidente del Consiglio), istituiva, per ogni provincia, dei commissari governativi che avrebbero dovuto provvedere alla ripartizione dei terreni del demanio pubblico, quel demanio pubblico dove erano state “accantonate” provvisoriamente le terre degli antichi feudi baronali soppressi nel 1806 da Giuseppe Bonaparte (provvedimento che i Borbone avevano mantenuto), appezzamenti che assai spesso venivano affittati ai contadini a prezzi calmierati. In ossequio a quanto stabiliva il decreto, i commissari agirono di concerto con la amministrazioni comunali. Ma finì per prevalere il criterio di assegnare le terre non ai senza-terra, ma a chi già di fatto le possedeva, vale a dire a quei proprietari che da sempre agivano all’interno dei consigli comunali.
Più tardi, in occasione della alienazione delle terre confiscate agli ordini religiosi (la cosiddetta “mano morta”) e trasferite al Demanio dello Stato nel 1862, si dispose che esse potessero essere acquistate solo da chi vantava crediti nei confronti dello Stato. Ma chi poteva vantare crediti nei confronti della Pubblica Amministrazione se non quelli che Galeota definisce “i soliti noti”? Non erano mancate voci di dissenso, come quella di un magistrato aquilano, Pasquale Carli, che a proposito delle suddette terre ecclesiastiche, aveva proposto, sul modello di quanto era avvenuto in Toscana e in Umbria, di assegnarle: prima, al demanio dei Comuni; e di ripartirle poi tra i contadini poveri, conservando inoltre i diritti di uso civico, “ In tal modo – scriveva saggiamente il Carli in un editoriale del 19 gennaio 1861 pubblicato su un giornale edito all’Aquila – non solo verrebbe tolta la causa o il pretesto alla sedizione, ma si trasferirebbero gli avversari della libertà in ardenti partigiani di essa “.
Nel libro non si esita a sfatare anche un altro luogo comune, quello di uno Stato borbonico, al tempo della spedizione garibaldina, opprimente e retrogrado. L’autore ci mostra, dati alla mano, una realtà alquanto diversa. C’era sì un piano di infrastrutture appena abbozzato e decisamente insufficiente, ma era in corso un apprezzabile impulso allo sviluppo industriale in vari settori. Le condizioni sociali negli ultimi anni erano migliorate. Si cita uno studio del 1900 di Francesco Saverio Nitti nel quale lo statista lucano aveva rilevato che, al momento dell’unificazione, l’Italia meridionale vantava “un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo”, ereditati dal nuovo Stato e messo a frutto non certo a vantaggio di chi li aveva prodotti e conservati.
Avviene in quegli anni, da parte delle classi dirigenti – scrive con documentata argomentazione Galeota – la deliberata scelta di favorire il solo sviluppo industriale del Nord. A ciò concorse una politica di agevolazioni fiscali e, più tardi, di protezionismo doganale, che dal punto di vista della produzione industriale, finì per trasformare il meridione – è questa l’amara conclusione dell’autore – in una sorta di colonia interna, sul modello di quanto farà l’Inghilterra con le sue colonie “esterne” (tesi certo forte e discutibile, ma niente affatto isolata nel panorama culturale italiano). Guido Dorso, forse il più appassionato e penetrante tra i meridionalisti, nel libro “La rivoluzione meridionale” del 1925, si esprime in termini assai simili. A ciò concorse anche – aggiunge Galeota – un ceto politico meridionale più attento a curare i propri orticelli locali e clientelari che a farsi portavoce di riforme strutturali a beneficio delle genti meridionali. Si manifesta qui quel costume, tipico di una certa tendenza meridionale, di coltivare virtù private e pubblici vizi, da cui nascerebbero quello scarso senso dello Stato di cui tanto si è parlato ai nostri giorni.
L’autore documenta, in altra parte del libro laddove la storia si confonde con l’attualità politica, che in termini di investimenti statali e di spesa pubblica, il divario favorevole al Nord non si è mai attenuato, a dispetto di tutta quella propaganda contro il presunto assistenzialismo meridionale. Alla denuncia del passato, recente e meno, l’autore fa seguire una serie di indicazioni. Ne parla nel capitolo 7, dall’eloquente titolo “Puntare sul meridione “. Tra le tante proposte, due meritano a mio avviso particolare attenzione. La prima, di carattere generale, è quella rivolta alla politica nazionale: si tratta di vincere le resistenze dell’Unione Europea per poter modificare una legge che, mentre permette che lo Stato finanzi, tramite una società pubblica, la Simest, con capitali della Cassa Depositi e Prestiti, la delocalizzazione delle nostre industrie in altri paesi a basso costo del lavoro, vieta che questo avvenga a favore delle due regioni del Sud che presentano redditi pro-capite molto al di sotto della media Europea. La seconda indicazione degna di attenzione riguarda direttamente il nostro territorio. Si tratterebbe, da un lato, di tornare alla cultura dell’artigianato finalizzato ai prodotti ad alto contenuto tecnico ed estetico; dall’altro di dare impulso ad un settore terziario al servizio di quel turismo che nella nostra regione sta conoscendo una fase di ripresa, in un territorio come il nostro disseminato di borghi stupendi come Navelli, con una discreta capacità ricettiva e un alto grado di attrazione.
L’autore di questo libro, come si evince fin dalle prime pagine, è un meridionalista convinto, un meridionalista però che ama analizzare la realtà nei suoi aspetti quantitativi, cercando i rimedi, piuttosto che attenersi alla sola teoria. C’è poi un’altra faccia del libro di Antonio Galeota, non meno importante, quella in cui descrive quel microcosmo sociale che è stata la Navelli dei primi decenni del secolo scorso. Vi dedica un capitolo specifico – “Tra le due guerre mondiali “ -, ma Navelli sta sullo sfondo di tutto il lungo racconto. Sembra quasi che l’autore abbia voluto saldare con questo borgo un debito sentimentale, in pagine dove spesso il dato storico e lo slancio poetico si fondono. Viene in mente quel nostro grande conterraneo, Benedetto Croce, che in appendice alla sua “Storia del regno di Napoli”, scritta nel 1924, riproduce due precedenti scritti dedicati a due paeselli d’Abruzzo, Montenerodomo e Pescasseroli, che sono i paesi d’origine rispettivamente della famiglia del padre e di quella della madre. È certamente un omaggio ai sentimenti e alle radici, ma risponde anche ad una esigenza intellettuale del filosofo, quella di “vedere in miniatura i tratti medesimi della storia generale”, come egli stesso scrive.
Antonio Galeota, crociano di fatto, fa una cosa analoga con Navelli. Con una differenza, mi permetto di osservare: che Benedetto Croce non potette avvalersi, nella sua ricerca su Montenerodomo e Pescasseroli, di un archivio ordinato come quello di Navelli. Antonio, come Don Benedetto, ci ricorda che siamo sempre figli, oltre che dei tempi, anche dei luoghi, come ha ricordato a noi aquilani, di dentro e fuori le mura, anche quella tremenda notte del 6 aprile di nove anni fa. Antonio ha scritto un libro pedagogico, di educazione civile, cosa tanto più importante in questi nostri giorni di confusione civile e morale. Mi viene da pensare, in conclusione, a quante volte abbiamo sentito, fin dai banchi di scuola, quel vecchio adagio secondo cui “la storia è maestra di vita”. Ebbene, se è vero che la storia è maestra di vita, è altrettanto vero che questa maestra, assai spesso, ha avuto scolari distratti. Antonio Galeota non sembra essere stato uno scolaro distratto. Ha scritto un libro in ottimo italiano, condito di ironia, punteggiato di espressioni dialettali caustiche ed efficaci. E queste sono ragioni in più per leggerlo, rispetto a quelle dianzi illustrate.
Giuseppe Lalli, com.unica 18 agosto 2018