Il Mito della Stagnazione Secolare
Una riflessione del premio Nobel per l’Economia Joseph E. Stiglitz sul ritorno in auge di un concetto nato durante la Grande Depressione degli anni ’30.
All’indomani della crisi finanziaria del 2008, alcuni economisti sostenevano che gli Stati Uniti, e forse l’economia mondiale, soffrivano di “stagnazione secolare”, un’idea concepita inizialmente subito dopo la Grande Depressione. Le economie si erano sempre riprese dalle recessioni. Ma la Grande Depressione era durata un periodo senza precedenti. Molti credevano che l’economia avesse recuperato solo a causa delle spese del governo per la seconda guerra mondiale, e molti temevano che con la fine della guerra l’economia sarebbe tornata alla sua stasi.
Si credeva che fosse successo qualcosa per cui si determinava il declino dell’economia anche con tassi di interesse bassi o nulli. Per ragioni ora ben comprese, questa terribile previsione fortunatamente si è rivelata sbagliata.
I responsabili della gestione della ripresa del 2008 (gli stessi individui colpevoli della sotto-regolamentazione dell’economia nei giorni precedenti la crisi, a cui il presidente Barack Obama si è inspiegabilmente rivolto per correggere ciò che essi avevano contribuito a rovinare) hanno trovato attraente il concetto di stagnazione secolare, perché esso spiegava i loro fallimenti nell’ottenere una ripresa rapida e solida. Quindi, poiché l’economia languiva, tale idea venne rilanciata: “Non incolpate noi, come responsabili occulti, stiamo facendo ciò che possiamo”.
Gli eventi dello scorso anno hanno smentito questa idea, che non è mai sembrata molto plausibile. L’improvviso aumento del disavanzo statunitense, da circa il 3% a quasi il 6% del PIL, a causa di imposte fiscali regressive e mal progettate e di un incremento della spesa bipartisan, ha portato però la crescita a circa il 4% e ha ridotto la disoccupazione al livello più basso in 18 anni. Queste misure possono essere mal concepite, ma mostrano che con un sufficiente sostegno fiscale, la piena occupazione può essere raggiunta, anche se i tassi di interesse salgono ben al di sopra dello zero.
L’amministrazione Obama ha commesso un errore cruciale nel 2009 nel non perseguire stimoli fiscali più ampi, più lunghi, meglio strutturati e più flessibili. Se l’avesse fatto, il rimbalzo dell’economia sarebbe stato più forte e non si sarebbe parlato di stagnazione secolare. Per come è andata, solo coloro che fanno parte del “top dell’1%” hanno visto crescere i loro redditi durante i primi tre anni della cosiddetta ripresa.
Alcuni di noi avvertirono allora che la crisi sarebbe stata lunga e profonda, e che ciò di cui c’era bisogno era più forte e diverso da ciò che Obama aveva proposto. Sospetto che l’ostacolo principale fosse la convinzione che l’economia avesse sperimentato soltanto una piccola “perturbazione” da cui si sarebbe rapidamente ripresa. Bisognava mettere le banche in ospedale, dare loro amorevoli cure (in altre parole, non ritenere i banchieri responsabili o addirittura rimproverarli, ma piuttosto sostenerne il morale invitandoli a consultarsi sulla via da seguire) e, cosa più importante, ricoprirli di una pioggia di soldi, e presto tutto sarebbe andato bene.
Ma la sofferenza dell’economia era più profonda di quanto suggerisse questa diagnosi. Le ricadute della crisi finanziaria sono state più gravi, ed una massiccia ridistribuzione del reddito e della ricchezza verso l’alto ha indebolito la domanda aggregata. L’economia stava attraversando una fase di transizione dalla produzione industriale ai servizi, un tipo di transizione che le economie di mercato da sole non gestiscono bene.
Sarebbe stato necessario qualcosa di più di un massiccio piano di salvataggio bancario. Gli Stati Uniti avevano bisogno di una riforma fondamentale del proprio sistema finanziario. La legislazione Dodd-Frank del 2010 in qualche modo è riuscita, anche se solo in parte, ad impedire che le banche facessero del male a tutti noi; ma ha fatto ben poco per garantire che le banche facciano effettivamente ciò che dovrebbero, concentrandosi maggiormente, ad esempio, sui prestiti alle piccole e medie imprese.
Era necessaria una maggiore spesa pubblica, ma anche programmi di ridistribuzione e pre-distribuzione più attivi – in grado di affrontare l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, l’agglomerazione del potere di mercato da parte di grandi aziende, e gli abusi societari e finanziari. Allo stesso modo, politiche attive industriali e del mercato del lavoro avrebbero potuto aiutare le aree colpite dagli effetti della deindustrializzazione.
Invece, i responsabili delle politiche non sono riusciti a fare abbastanza nemmeno per impedire che le famiglie povere perdessero la casa. Le conseguenze politiche di questi fallimenti economici erano prevedibili e previsti: era chiaro che c’era il rischio che coloro che venivano così maltrattati si rivolgessero a un demagogo. Nessuno avrebbe potuto prevedere che gli Stati Uniti ne avrebbero avuto uno così cattivo come Donald Trump: un misogino razzista intenzionato a distruggere lo stato di diritto, sia in patria che all’estero, e a screditare le istituzioni americane che usano dire la verità ed esprimere analisi, compresi i media.
Stimoli fiscali ingenti come quelli del dicembre 2017 e del gennaio 2018 (di cui l’economia non aveva realmente bisogno all’epoca) sarebbero stati tanto più incisivi un decennio prima quando la disoccupazione era molto alta. La ripresa debole non è stata quindi il risultato di una “stagnazione secolare”; il problema stava nelle politiche governative inadeguate.
Qui sorge una domanda fondamentale: i tassi di crescita nei prossimi anni saranno tanto forti quanto lo sono stati in passato? Questo, ovviamente, dipende dal ritmo del cambiamento tecnologico. Gli investimenti in ricerca e sviluppo, in particolare nella ricerca di base, sono un fattore determinante, anche se giunti in grave ritardo; i tagli proposti dall’amministrazione Trump non promettono nulla di buono.
Ma anche in questo caso, c’è molta incertezza. I tassi di crescita pro capite sono variati notevolmente negli ultimi 50 anni, dal 2 al 3% all’anno nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale e seguenti fino allo 0,7% dell’ultimo decennio. Ma forse c’è stato un eccessivo feticismo della crescita, specialmente quando pensiamo ai costi ambientali, e ancora di più allorché emerge che tale crescita non comporta benefici rilevanti per la stragrande maggioranza dei cittadini.
Ci sono molte lezioni da imparare nel riflettere sulla crisi del 2008, ma la cosa più importante è che la sfida è stata – e rimane – politica, non economica: non c’è nulla che impedisca intrinsecamente che la nostra economia venga gestita in modo da garantire la piena occupazione e una prosperità condivisa. La stagnazione secolare era solo una scusa per politiche economiche viziate. A meno che e finché non siano superati l’egoismo e la miopia che definiscono la nostra politica – specialmente negli Stati Uniti sotto Trump ed i suoi sostenitori repubblicani – l’economia al servizio di molti, piuttosto che di pochi rimarrà un sogno impossibile. Anche se il PIL aumentasse, i redditi della maggioranza dei cittadini ristagnerebbero.
Joseph E. Stiglitz, project-syndicate agosto 2018
*Premio Nobel per l’Economia nel 2001, insegna Politica Economica alla Columbia University ed è capo economista presso il Roosevelt Institute.