Considerare i diritti dei lavoratori allo stesso livello degli interessi commerciali, invece che un semplice complemento ad essi. La proposta di Dani Rodrik, professore di Economia Internazionale ad Harvard.

I portavoce dei lavoratori lamentano da tempo il fatto che gli accordi commerciali internazionali siano guidati dalle agende delle imprese e prestino scarsa attenzione agli interessi dei lavoratori. Il preambolo del World Trade Organization Agreement menziona l’obiettivo della “piena occupazione”, ma gli standard sul lavoro restano esclusi dall’ambito di applicazione del regime commerciale multilaterale. L’unica eccezione è una clausola, lasciata dopo il General Agreement on Tariffs and Trade (precursore della WTO) del 1947, che consente ai governi di limitare le importazioni che sono prodotte con i lavori forzati.

Gli accordi commerciali regionali, invece, hanno da tempo preso a bordo gli standard sul lavoro. In questi accordi, il collegamento tra accesso preferenziale al mercato e adesione ai principali diritti del lavoro è diventato sempre più esplicito. Nell’originale accordo NAFTA (North American Free Trade Agreement), siglato nel 1992, gli standard sul lavoro erano inclusi in un patto collaterale. Da allora gli accordi commerciali americani includono solitamente un capitolo sul lavoro.

Secondo i fautori, la Trans-Pacific Partnership avrebbe richiesto a Vietnam, Malesia e Brunei di migliorare significativamente le pratiche di lavoro – e al Vietnam di riconoscere i sindacati indipendenti. E l’amministrazione del presidente americano Donald Trump dichiara che il suo accordo rinnovato con il Messico contiene le più forti disposizioni in materia di lavoro mai viste prima in un accordo commerciale.

I paesi in via di sviluppo si sono generalmente opposti all’inclusione degli standard sul lavoro negli accordi commerciali temendo che i paesi avanzati potessero abusare di tali disposizioni a fini protezionistici. Questo timore può essere giustificato quando i requisiti vanno oltre i diritti fondamentali del lavoro e fanno specifiche richieste salariali o di altro genere. Ad esempio, il nuovo accordo Usa-Messico richiede che il 40-45% di un’automobile sia realizzato da lavoratori che guadagnino almeno 16 dollaro l’ora.

Le case automobilistiche possono certamente permettersi di pagare salari più alti, e questa clausola da sola non può minare le prospettive di occupazione in Messico. Ma non è neanche un precedente del tutto salutare, nella misura in cui fissa un tetto salariale non realistico – molti multipli superiori alla media del settore manufatturiero messicano nel suo complesso.

D’altro canto, i paesi in via di sviluppo non hanno ragione di rifiutare gli standard sul lavoro che affrontano le asimmetrie del potere contrattuale sul luogo di lavoro e i diritti umani fondamentali. I principali standard di lavoro come la libertà di associazione, i diritti di contrattazione collettiva e il divieto dei lavori forzati non hanno un costo a livello di sviluppo economico; anzi, sono essenziali a tal fine.

In pratica, il problema con le clausole sul lavoro degli accordi commerciali non è che sono troppo restrittive per i paesi in via di sviluppo; è che potrebbero restare ampiamente aleatorie, con scarsi effetti pratici. Una tematica fondamentale è l’applicazione. Da un lato, le azioni penali per le violazioni sui diritti sul lavoro possono essere formalizzate solo dai governi, e non dai sindacati o dalle organizzazioni umanitarie. Le controversie in materia di investimenti possono invece essere lanciate dalle aziende stesse.

I detrattori temono a ragione che i governi non particolarmente favorevoli alle cause sul lavoro non avranno voglia di seguirli. Ad oggi, c’è un solo caso di diritti del lavoro perseguiti secondo le procedure di risoluzione delle controversie di un accordo commerciale, e l’esito non è molto incoraggiante.

Dopo due anni di denunce da parte dei sindacati degli Usa e del Guatemala, il governo americano formalmente lancia una causa contro il Guatemala nel 2010. Quando fu annunciata la decisione finale nel 2017, quasi un decennio dopo aver presentato gli iniziali reclami, il collegio arbitrale si espresse contro gli Usa, ma non perché il Guatemala teneva fede ai propri obblighi sui diritti del lavoro in base alle proprie leggi. Il collegio riscontrò in realtà delle violazioni nelle leggi sul lavoro guatemalesi. Ad esempio, non furono applicati gli ordini dei tribunali contro i datori di lavoro che avevano licenziato i lavoratori impegnati nel sindacato. Ma stabilì che tali violazioni non avessero effetto sul vantaggio competitivo e le esportazioni del Guatemala, e quindi non erano coperte dall’accordo commerciale!

Ci sono due motivi per occuparsi delle condizioni di lavoro. Il primo è che abbiamo un desiderio umanitario per migliorare le condizioni di lavoro ovunque. In questo caso, dovremmo avere pari riguardo per i lavoratori nell’economia domestica e per coloro che sono impiegati nei settori dell’export. Focalizzarsi su questi ultimi potrebbe anche ritorcersi contro, intensificando le strutture del mercato del lavoro.

In linea di principio, potremmo espandere le clausole applicabili in materia di lavoro per coprire le condizioni di lavoro nell’intera economia. Ma sembra strano che vi sia un collegamento: perché i diritti del lavoro dovrebbero essere lasciati ai negoziatori commerciali e gli interessi commerciali seduti attorno al tavolo, e restare ostaggio dei negoziati formulati in termini di accesso al mercato?

Se intendiamo seriamente migliorare le condizioni di lavoro ovunque, dovremmo rivolgerci a degli esperti in materia di diritti umani, mercati del lavoro e sviluppo, oltre ad aumentare il profilo della International Labor Organization. Per perseguire meglio gli obiettivi sia dei sindacati nazionali che dei sostenitori internazionali dei diritti umani servono altri mezzi.

Un’argomentazione a favore del collegamento con il commercio è che consente ai paesi un incentivo reale di riformare le pratiche del mercato del lavoro. Ma le agenzie umanitarie straniere hanno una lunga esperienza con la condizionalità, e sanno quanto sia efficace solo in condizioni particolari. Il desiderio di cambiamento deve arrivare direttamente dall’interno del paese ed essere dimostrato con azioni preventive. Non funzionerà raggiungere la riforma minacciando di sospendere i vantaggi materiali – aiuti o accesso ai mercati.

In alternativa, la preoccupazione per gli standard di lavoro potrebbe essere più contenuta, mantenendo le condizioni di lavoro nel proprio paese ed evitando una corsa al ribasso. In questo caso, dovremmo cercare rimedi a livello domestico, come con le misure contro l’eccesso di importazioni. Ciò che serve è un meccanismo contro il “social dumping”, il quale evita che le pratiche di lavoro di scarsa qualità dei paesi esportatori contagino il paese importatore.

Un modello di questo tipo, se mal concepito, potrebbe provocare un eccessivo protezionismo. Eppure, anche le misure anti-dumping perlopiù protezionistiche permesse con le vigenti regole commerciali non sono state troppo dannose per il commercio, e hanno fornito una valvola di sfogo per la pressione politica. Una misura di tutela ben concepita contro il social dumping non potrebbe fare peggio.

I diritti in materia di lavoro sono troppo importanti per essere lasciati esclusivamente alla sfera dei negoziati commerciali. Ad oggi, le clausole di lavoro degli accordi commerciali altro non sono una foglia di fico, che né aumenta gli standard di lavoro all’estero né li tutela nel proprio paese. Il vero cambiamento richiede un approccio del tutto differente. Potremmo iniziare trattando i diritti dei lavoratori allo stesso livello degli interessi commerciali, invece che un semplice complemento ad essi.

(Dani Rodrik, project-syndicate settembre 2018)

*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Politica Economica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.

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