Anne Sexton: poesia e delirio di un’anima nuda
Il 4 ottobre 1974 moriva Anne Sexton, scrittrice e poetessa statunitense. Aveva 46 anni e mise fine alla sua vita sofferente suicidandosi. Morì per asfissia, dentro la sua auto, in garage, dopo aver indossato la vecchia pelliccia di sua madre, bevuto della vodka e acceso il motore.
Era “Bella e dannata, sexy e infantile, sposata e sciupamaschi, indifesa ed esibizionista, plurisuicida con un incrollabile senso dell’umorismo, autodidatta e docente universitaria, atea e religiosa…”. Così la definisce Rosaria Lo Russo, curatrice e traduttrice dei testi della Sexton per la casa editrice Le Lettere. Tra i suoi titoli ricordiamo Il libro della follia, I Taccuini della morte, Con pietà per gli avidi, Carte di Gesù, Angeli delle storie di sesso, Il tremendo remare.
Il suo vero nome era Anne Gray Harvey. Era nata nel Massachusetts il 9 novembre 1928, in una famiglia agiata e infelice. La sua fu un’infanzia solitaria e non frequentò corsi regolari di studi. Il padre era un uomo d’affari ricco e alcolizzato. La madre, erede di una famiglia illustre molto introdotta in ambiente politico, era una donna fredda e distante. I suoi rapporti con loro furono sempre molto difficili, soprattutto con suo padre, che pare la detestasse. L’unico suo riferimento era una giovane prozia, Nana (Anna Dengley) che viveva con loro. Anne era una ragazza molto bella, ma non particolarmente versata per lo studio, irrequieta, aveva disturbi del comportamento e non rispettava la disciplina, era frivola e metteva spesso in imbarazzo la famiglia. Presentava i sintomi di un disagio psichico, probabilmente un disturbo bipolare purtroppo sottovalutato, che si manifesterà prepotentemente in età adulta.
Pensò di riempire i vuoti della sua vita creandosi una famiglia propria e a diciannove anni sposò Alfred Kayo Sexton. Dopo la nascita del primo figlio, nel 1953, soffrì di depressione post-partum e dopo la nascita della seconda figlia, nel 1955, inizia a soffrire di attacchi di panico violenti, tentò il suicidio due volte e venne ricoverata in una clinica psichiatrica.
“Stavo tentando l’impossibile per condurre una vita tradizionale… ma non si possono costruire piccole palizzate bianche per tenere lontani gli incubi. La superficie si spezzò quando avevo circa 28 anni. Ebbi un attacco di panico e tentai di uccidermi”.
Il primo di una lunga sfilza di ricoveri, perché la Sexton combatterà contro la depressione per il resto dei suoi giorni. Durante il ricovero, lo psichiatra, il dottor Martin Orne, le suggerì di usare la scrittura come terapia: doveva scrivere quello che sentiva, pensava e sognava. Impressionato dal suo lavoro, il dottor Orne la incoraggiò a continuare. Le sue poesie sui momenti trascorsi in manicomio, sui conflitti e le lotte affrontate contro i suoi demoni interiori divennero un libro, To Bedlam and Part Way Back (1960), che racconta le esperienze di follia e di quasi-follia, i tentativi a volte patetici di guarire, gli esperimenti per trovare una cura. Il lento ritorno in società, la necessità di lavorare ancora sul passato e sulle vecchie ferite. Nel 1957 la Sexton si unì a un gruppo di scrittura di Boston che la portò a conoscere poeti come Maxine 04Kulin, Robert Lowell, George Starbuck e Sylvia Plath, di cui divenne molto amica.
Ad Anne pesava la società bigotta, opprimente e maschilista del New England. Non si identificava con il ruolo di donna e madre che la società le imponeva, si sentiva soffocare in una casa surrogato d’amore. Doveva fare i conti con il pessimo rapporto con sua madre, con gli incubi, la paura e il senso di colpa. Il rapporto con gli uomini, il sesso, le crisi mistiche e la presenza di Dio. Esprimeva tutto questo nelle sue poesie, usando le parole in maniera pungente e sensuale. Una produzione immane di scritti, un lavoro accumunato con quello di altri poeti come Sylvia PLath, Robert Lowell, John Berry e William De Witt Snodgrass, definiti poeti confessionali, proprio per i contenuti intimi e personali dei loro versi. Il lavoro della Sexton divenne molto popolare e nel corso della sua vita ricevette numerosi riconoscimenti e premi molto importanti, tra i quali il Premio Pulitzer alla Letteratura nel 1968, una borsa di studio Guggenheim, alcune sovvenzioni dalla Fondazione Ford, una laurea honoris causa, una cattedra alla Colgate University e una alla Boston University.
Malgrado i suoi successi, sono stati molti i detrattori che hanno avviato discussioni critiche sul suo lavoro e aperto il fuoco sugli elementi apparentemente autobiografici dei sui versi. I suoi libri sono stati considerati una mera soap opera ben congegnata e la Sexton è stata accusata di aver fatto un abbondante uso di fatti immaginari. Qualcuno ha ritenuto che le sue poesie fossero appunto solo poesie, non memorie. Uno dei primissimi sostenitori di Anne Sexton, Erica Jong, rivedendo The Death’s Notebooks (i taccuini di morte) ha rivalutato il significato della poetica della Sexton ed ha sostenuto che la sua arte è stata trascurata seriamente: una poetessa importante non solo per il coraggio dimostrato a trattare particolari argomenti proibiti, ma per la capacità di trarre ispirazione da essi, trasformando un momento di vita vissuta in pura arte.
Selvaggia e sanguigna, dotata di una poetica ironica, aggressiva e impietosa, venne ad anticipare i movimenti culturali e politici della ribellione femminista del ’68. Eppure non riuscì a sottrarsi al richiamo di quella frattura dentro che la portò a smettere di remare, quel pomeriggio del 4 ottobre, giorno del suo divorzio da Alfred, quando si tolse la vita con i gas di scarico della sua auto.
Nadia Loreti, com.unica 4 ottobre 2018