Asia Bibi e la vita appesa a un filo nel Pakistan dove il peccato è reato
Il commento di Luigi Manconi sul Corriere dedicato al caso di Asia Bibi, la donna cristiana cattolica condannata a morte con l’accusa di aver offeso il profeta musulmano Maometto.
Chi salverà Asia Bibi? Prima del 1986, i codici della repubblica islamica del Pakistan non avevano «leggi per punire un blasfemo» (per citare il testo di Fabrizio de Andrè tratto da Edgar Lee Masters). Ma proprio in quell’anno venne riformulata e integrata la normativa diretta a sanzionare con la pena capitale o il carcere a vita i responsabili di offese contro il Profeta Maometto o contro il Corano. Trovo meschina e un po’ deprimente la tetra competizione tra differenti contabilità di vittime. Di conseguenza, non sono affatto sicuro che, come tanti affermano, «nessuno parli dei cristiani perseguitati e trucidati nel mondo». Innanzitutto perché di tanti, tantissimi perseguitati e trucidati nel mondo, cristiani e non, si parla poco o punto. E, ancora, perché il trattare un tema o il tacerlo dipendono da una molteplicità di fattori che raramente rispondono non dico a un progetto compiuto, ma nemmeno, necessariamente, a una strategia di censura o di auto censura (che sia imposta da una mentalità dominante o da interdizioni ideologiche o confessionali).
Ma c’è una ulteriore motivazione di fatto che rende difficile, e un po’ indecente, la gerarchizzazione delle diverse forme di oppressione. Ovvero il fatto che le vittime non siano riducibili a una sola categoria, a un unico gruppo etnico, a una circoscritta minoranza religiosa. La storia del mondo ci insegna che i diritti umani sono indivisibili, ne consegue che a patire violazioni e sopraffazioni non sia mai esclusivamente un destinatario particolare. Vale sempre e ovunque: anche in Pakistan, dove le politiche di discriminazione hanno come bersaglio oltre che la minoranza cristiana, anche tutti i non musulmani (indù, sikh, parsi, bahai e ahmadi), che vengono esclusi dalle più rilevanti cariche pubbliche e funzioni istituzionali.
Così i provvedimenti contro la blasfemia si sono rivelati un micidiale dispositivo di persecuzione delle anime e dei corpi, sono stati applicati in centinaia di casi e hanno portato in tribunale, e frequentemente al patibolo, cristiani, indù, sikh e tanti musulmani. Come dire che il fanatismo, quando si dispiega in tutta la sua ferocia, non guarda in faccia nessuno. Il Pakistan è uno dei trentasei paesi nei quali, tuttora, viene applicata la pena di morte. Tra le prossime esecuzioni, potrebbe esserci quella di Asia Bibi, nata quarant’anni fa, e da nove in isolamento in una cella del carcere di Multan. Nel 2009, la cristiana Asia Bibi lavora come bracciante nel villaggio di Ittanwali. In un giorno come gli altri va a riempire un catino d’acqua per sé e le compagne: la calura è tanta e mentre torna nei campi beve qualche sorso da quel recipiente. Il suo appartenere a un altro credo basta alle donne musulmane che lavorano con lei per accusarla di aver contaminato quell’acqua. Ne nasce un diverbio nel corso del quale, secondo le altre braccianti, Asia avrebbe offeso il Profeta Maometto. Da qui l’arresto e l’inizio del calvario giudiziario. L’anno successivo il tribunale del Punjab la condanna a morte per impiccagione: pena che sarà confermata nel processo d’appello del 2014 per poi essere sospesa nel 2015. Lo scorso 8 ottobre il collegio di giudici della Corte Suprema, dopo una lunga udienza, si è riservato di emettere il verdetto finale, che potrebbe arrivare tra pochi giorni.
Quella di Asia Bibi è molto più di una semplice vicenda giudiziaria. E ciò non solo per la gravità del possibile esito, ma anche per la violenza dello scontro contenuto e deformato in questo caso. Com’è stato possibile che il contrasto tra alcune donne, in un campo nella provincia più remota di un paese lontano, sia diventato il simbolo e il centro stesso di un conflitto a livello mondiale, che ha coinvolto opinioni pubbliche e governi, papa Bergoglio e diplomazie internazionali? Forse la risposta si può trovare solo scavando a fondo nelle radici della tensione religiosa, ideologica e culturale che attraversa e lacera Oriente e Occidente. Intanto, in Pakistan il partito degli islamisti radicali, Tehreek e-Labbaik, minaccia «gravi conseguenze» nel caso di sentenza di assoluzione. Quali possano essere tali conseguenze si può immaginare ricordando la sorte delle persone che, negli anni scorsi, si sono espresse a favore della scarcerazione di Asia: come il governatore del Punjab, Salman Taseer, o il ministro per gli Affari delle minoranze, Shahbaz Bhatti, entrambi assassinati.
Infine, in questa vicenda atrocemente paradigmatica, il tema del peccato e del reato (meglio: del peccato trasformato in reato) è rappresentato dalla blasfemia. Fattispecie tanto sottile da rischiare l’evanescenza. Eppure da tale vischiosa labilità può derivare la durezza materiale e corposa di una sequenza di esecuzioni capitali: come se un’antica e cruenta disputa teologica continuasse nei secoli a sanguinare. A paradossale conferma di ciò, e sottraendoci tuttavia a qualsiasi suggestione di indebite assimilazioni e di artificiose affinità, si può notare che in tutt’altra parte del mondo e in tutt’altra cultura la richiesta di perseguire la blasfemia e la «diffamazione di Dio» trova i suoi sostenitori. Come quei gruppi del tradizionalismo cattolico che, nel 2012, si appellarono al magistero di Benedetto XVI.
Luigi Manconi, Corriere della Sera 19 ottobre 2018