Santa Maria della Pietà di Roma, un viaggio nel Museo Laboratorio della Mente

Nel vecchio manicomio di Santa Maria della Pietà, dal 2000 c’è il Museo Laboratorio della Mente, nell’ottica di un recupero della struttura, che ha comunque un valore di patrimonio storico e culturale per la capitale.

Il manicomio, un tempo luogo di repressione e di sofferenza, è diventato il centro di esperienze importanti, dal punto di vista culturale e tecnologico. Il Laboratorio della Mente è nato tra questi padiglioni ed è diventato uno spazio a disposizione della città, un laboratorio di sperimentazione sensoriale, percettiva e creativa decisamente all’avanguardia, in cui raccontare la storia della sofferenza in un altro modo, superando le barriere delle etichette che vogliono i malati mentali considerati come elementi pericolosi da emarginare.

L’ospedale psichiatrico di Roma, il Santa Maria della Pietà, iniziò a funzionare nel 1913. Costruito sulla collina di Monte Mario, era concepito come un manicomio-villaggio, si stendeva su un territorio di 130 ettari, era costituito da 41 edifici ospedalieri, dei quali 24 erano padiglioni di degenza, collegati tra di loro da una rete stradale di sette chilometri. L’intero complesso, con l’architettura dei padiglioni risalente agli inizi del ‘900, immerso in un parco lussureggiante di verde, con alberi perenni ad alto fusto, giardini concentrici, era ben lontano dal centro della città.

La struttura costituiva il più grande Ospedale Psichiatrico d’Europa e poteva ospitare mille posti letto. In realtà una magnifica prigione, dove i pazienti erano assegnati ai singoli reparti non per patologia, ma per livello di aggressività. Dove dominava l’abbandono, la regressione e l’alienazione. Erano quasi tutti etichettati come schizofrenici, una “macro definizione” in cui si perdevano l’identità e la personalità di ognuno.

Tra i padiglioni quello dei criminali, con mura di cinta di quattro metri, quello degli agitati, quello dei pericolosi perché tentavano la fuga o il suicidio, quello dei bambini, delle lavoratrici, dei malati di tubercolosi e, infine, il bisonte, il padiglione più grande, quello che ospitava schizofrenici, epilettici e dementi senili, tutti insieme, senza diagnosi specifica. Per motivi di ordine, gli elementi più problematici venivano costretti a letto, legati con fasce di contenimento, e pesantemente sedati. Per essere internati, bastava spesso solo una dichiarazione di pericolosità, per sé stesso e gli altri. Con la legge Basaglia e l’Antipsichiatria, dal 1978 iniziò il graduale svuotamento di queste strutture. Il Santa Maria della Pietà fu chiuso nel 1998.

In quei venti anni di riorganizzazione dell’accoglienza psichiatrica, si verificò un grosso problema legato all’integrazione dei pazienti nella società, soprattutto di quelli che avevano alle spalle decenni di istituzionalizzazione. È proprio questo il punto di partenza del percorso interattivo e multisensoriale, organizzato nel Padiglione 6, con l’allestimento ideato dagli artisti dello Studio Azzurro, che hanno fatto di questo luogo di memoria e di critica all’istituzione manicomiale, un nuovo modo di guardare alla salute mentale.

Entrare fuori e uscire dentro, è il motto del Laboratorio della Mente: si può considerare “casa” il mondo di fuori, dopo una lunga degenza, a volte pluridecennale, in un manicomio? Si può “entrare” fuori? Come ci si abitua a una nuova vita, quando si è vissuti, si è “abituati” alla segregazione, a una dimensione di alienazione? Quanta paura provavano i pazienti dimessi di fronte al mondo di fuori, alla realtà che dovevano affrontare? E il mondo fuori riusciva veramente ad entrare dentro?

Nel percorso a tappe, Il muro delle esclusioni, vecchie e nuove. Il muro trasparente dove vanno a cozzare i corpi per poi tornare indietro, sbalzati da una realtà violenta e sconosciuta che non si può trasformare. Una teoria di stanze, una sequenza di ambienti, in cui si afferra l’alterazione delle percezioni visive e uditive, in cui un mondo sonoro interiore interferisce con la sensibilità, l’ascolto intimo e la propriocezione di ognuno. Sperimentando il senso di disorientamento, la confusione, lo stordimento dei pazienti psichiatrici. Una dimensione in cui il tempo perde di valore, la memoria cessa di funzionare, l’identità scompare.

Si possono trovare esposti 25 ritratti eseguiti da Romolo Rigetti, psichiatra del Santa Maria della Pietà, che attraverso l’arte sottolineava i segni della diversità di ogni paziente internato. Si sperimentano le operazioni di schedatura dei pazienti al momento del ricovero, con tanto di fotografia e nome scritto sulla lavagna, il dondolarsi ossessivo sulle sedie, il soliloquio, le voci nella testa. Si scoprono le vite spezzate, come quella di Gianfranco Baieri, vissuto cinquant’anni nel manicomio di Santa Maria della Pietà, che dipingeva Madonne immerse nei fiori, volti di pazienti, orologi che segnavano un tempo inesistente, ormai fermi al Tempo-Di-Dentro. Oppure quella di Oreste Fernando Nannetti, che all’Ospedale Psichiatrico di Volterra incise un muro con la fibbia della cintura della divisa manicomiale, per affermare ogni giorno che “esisteva”. Un universo di frasi, disegni, racconti. La “fibbia catodica”, come la definiva Oreste, per narrare una realtà sospesa, senza tempo né spazio, ma comunque rassicurante. L’istituzione chiusa, rappresentata dalla fagotteria, dove i ricoverati lasciavano i loro effetti personali, la stanza del medico e la camera di contenzione, con le macchine per l’elettroshock e la Farmacia. L’istituzione chiusa, ordinata dal libro del regolamento, dalle cartelle cliniche, dal registro delle “consegne”. Proiezioni e animazioni per raccontare un mondo scandito da pochi sbiaditi colori e da una cacofonia di suoni “dentro”.

Sulla parete, tra le forchette, uno schermo: l’attrice teatrale Carlotta Piraino interpreta l’internata Lia Traverso che nel 1969 fece uno sciopero della fame per reclamare l’uso di forchette e coltelli. I pazienti potevano usare solo i cucchiai, o le mani. Le altre posate erano considerate pericolose. Come erano pericolosi le cinture e i lacci delle scarpe. Stranamente però potevano usare attrezzi da lavoro come zappe, forbici, martelli. La Traverso restò al Santa Maria della Pietà solo tre mesi, poi fu rispedita al manicomio di Guidonia, da dove veniva, e dove restò fino alla sua morte.

Non si può restare indifferenti dopo aver visitato questo museo multisensoriale, si esce con l’anima trasformata e tanti interrogativi nella testa. Si esce cambiati e un po’ più riflessivi. Il viaggio nel Laboratorio della Mente documenta il sentire del malato psichico, ma anche le tappe fondamentali che hanno portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici e il lungo percorso di trasformazione dell’assistenza psichiatrica in Italia.

La legge Basaglia, la legge 180/1978, fu l’inizio del cambiamento: negli anni ’60, il manicomio conteneva, non curava. Toglieva dalla strada le persone scomode, operava un controllo sociale sulla devianza. Non esisteva il concetto di sofferenza mentale: il malato psichico viveva immerso nei suoi escrementi, legato al letto, torturato con l’elettroshock e i bagni gelati. Con la legge Basaglia la sofferenza mentale fu il concetto che venne alla ribalta, come la contestualizzazione dei disturbi psichici nell’ambiente socio affettivo del malato, un importante punto d’incontro tra Antropologia e Psichiatria. L’assistenza fu demandata ai servizi territoriali e fu regolamentato il TSO per i casi gravi e pericolosi. L’idea era di ridurre le terapie farmacologiche e la contenzione. Se la malattia mentale rappresentava la perdita dell’individualità e della libertà, il manicomio era il luogo per eccellenza in cui tutto andava definitivamente perduto. Veniva annientata la spinta motivazionale, la progettualità individuale, la voglia di guardare al futuro.

giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente, trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro” – Franco Basaglia

Nadia Loreti, com.unica 30 ottobre 2018

*Foto di Marco De Carolis

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