Appunti di viaggio tra Detroit e Rochester, di mezzo il Niagara
Un reportage di Goffredo Palmerini: personaggi, imprese, storie di vita e di emigrazione, emozioni e l’orgoglio delle radici
L’AQUILA – Detroit è la principale città del Michigan. Affacciata sul fiume omonimo che la separa dal Canada, con Windsor che la fronteggia sulla sponda canadese, Detroit fu fondata nel 1701 da un ufficiale francese, Antoine Laumet de la Mothe, che la eresse come insediamento fortificato – Fort Detroit – in posizione strategica, nella regione dei grandi laghi. Il nome – dal francese détroit, stretto – si riferisce al “fiume dello stretto” che collega i laghi St. Clair e Erie. L’insediamento prosperò subito come centro commerciale per i cacciatori di pellicce, mentre il porto offriva riparo alle navi francesi che solcavano i grandi laghi. Proprio per la sua favorevole posizione, fu ripetutamente contesa tra colonizzatori francesi e inglesi, fin quando nel 1760 non cedette alla resa alle truppe inglesi, diventandone roccaforte durante la Guerra d’indipendenza americana. Nel 1796, in seguito al Trattato di Jay, Detroit passò agli Stati Uniti e qualche anno dopo fu capitale del Michigan, fino al 1847.
La città crebbe molto – le raffinate architetture la fecero definire la “Parigi dell’ovest”- grazie all’economia basata sul sistema industriale e sui cantieri navali, oltreché favorita dalla grande versatilità dei trasporti lacuali e terrestri. Ma alla fine dell’Ottocento fu proprio nel settore dei trasporti che Henry Ford progettò e nel 1904 costruì la prima automobile, avviando quella fiorente industria che ancor oggi porta il suo nome. Con l’avvento poi in quel medesimo settore di Walter Chrysler e dei fratelli Dodge con le loro industrie, Detroit divenne la capitale mondiale dell’automobile, definita non a caso “the Motor City“. L’industria dell’automobile ne spronò la straordinaria crescita nella prima metà del secolo scorso, attirando nell’area urbana molti immigrati dall’Europa e soprattutto lavoratori di colore dagli Stati del sud, non senza tensioni sindacali nelle fabbriche e problemi razziali tra la popolazione “nera” e “bianca” della città, arrivata a negli anni Cinquanta a quasi due milioni di abitanti.
Diversi i casi di turbolenze razziali, nella prima metà del Novecento. Ma fu nel luglio del 1967 quando una rivolta degli afroamericani, generata da un raid notturno della polizia in un locale della 12^ Strada, sconquassò la città con violenze e distruzioni, saccheggi ed incendi. Oltre quaranta furono i morti, migliaia i feriti, negli scontri tra rivoltosi e le forze di polizia e militari dell’esercito. Quella sommossa accelerò il fenomeno dell’abbandono della città dei “bianchi”, che si allontanarono nei centri dell’hinterland dove costruirono le loro residenze, oltre le 8 miglia da Detroit, mentre la popolazione nera si avviava a superare l’80 per cento. Da allora la città conobbe un progressivo declino, con le periferie in gran parte abbandonate e in degrado, e con la disoccupazione seguita alla crisi dell’industria dell’auto. Perse molti abitanti Detroit, scendendo sotto i 700mila. Quella crisi, durata poi per decenni, si è scaricata anche sul Comune, andato nel 2013 in fallimento. Ora, con la ripresa industriale specie nel settore dell’automotive – basti citare la nuova stagione della Chrysler in FCA sotto l’impulso di Sergio Marchionne – e con un’amministrazione civica più oculata e progettuale che ha riportato i conti in ordine, Detroit si è finalmente avviata alla rinascita. Lo racconta il forte recupero architettonico del downtown, il rigoglio delle attività commerciali e culturali che la stanno rendendo di nuovo appetibile alle residenze, oltre che alle attività direzionali e terziarie.
La città, con le sue architetture, mette in mostra una buona varietà di stili, l’Art déco dei grattacieli si sposa con il postmoderno nella Comerica Tower e nel Renaissance Center, diventato il simbolo di Detroit. Grazie all’opera di valenti architetti e urbanisti, in passato ed ora, che ne stanno ridisegnando il volto. E così tornano a risplendere il Guardian Building, il Penobscot Building, il Fisher Building, ed altri edifici, alcuni dei quali portano l’impronta artistica dello scultore d’architetture italiano Corrado Parducci (1900 – 1981), che ha decorato i più importanti palazzi e grattacieli di Detroit (i building Loan, Buhl, Guardin, Greater Penobscot, First State Bank, David Stott, Detroit Public Library, Music Hall, ed altri ancora). Non mancano poi d’interesse gli edifici della Wayne State University, dove brulicano nelle loro attività oltre 27 mila studenti e diverse migliaia di docenti. Intensa la vita culturale, che gira intorno al Fox Theatre, alla Detroit Opera House, al Masonic Temple Theatre e al Detroit Institute of Arts. Ma è soprattutto la musica che caratterizza Detroit, portandola all’attenzione del mondo. Conta i locali “live” più importanti degli States. Sin dagli anni Quaranta del secolo scorso il blues, il jazz, vent’anni dopo il rock, più recentemente la musica techno, funk e rap, hanno potuto contare su grandi interpreti. Fino a Madonna – Louise Veronica Ciccone – icona della musica nata a Detroit ma di origine italiana (Pacentro, in Abruzzo), che proprio in quel contesto artistico si è allevata. Inoltre i più impostanti artisti hanno inciso a Detroit per la casa discografica Motown Records. La città ogni anno organizza diversi festival, come il Ford Detroit International Jazz Festival, l’Electronic Music Festival, il Motor City Music Conference (MC2), l’Urban Organic Music Conference, il Concert of Colors e l’Hip-hop Summer Jamz Music Festival.
Detroit è divisa in quartieri e distretti storici. La Midtown e la zona di New Center richiamano milioni di visitatori ogni anno con i loro musei e con le iniziative culturali. La sera il Downtown e il Bricktown pullulano di gente nei ristoranti tipici, ma soprattutto di giovani nei locali di svago, mentre il Casinò attira clienti anche dal vicino Canada. Altro quartiere famoso è l’Eastern Market, che ogni sabato è affollato da 50 mila persone tra banchi di frutta e verdure, vendute dai diretti produttori, e i tanti banchi delle altre mercanzie. Un caleidoscopio di varia umanità. Là, in Market Street, c’è Vivio’s Food & Spirits, locale cult di Detroit: arredato con stile un po’ rétro, con vecchi arnesi e pubblicità, serve un’ottima cucina e bevande di qualità a quattro passi dalla Gratiot Avenue, una delle principali arterie che alimentano a raggiera l’accesso al centro della città.
Ci siamo andati il 2 ottobre scorso da Vivio’s, insieme a Sandra Tornberg ed Enzo Paglia, appena usciti dall’incontro molto cordiale con la Console d’Italia, Maria Manca. Ci sono andato soprattutto per salutare Vincent Vivio (Vince), un personaggio davvero straordinario che avevo conosciuto nel 2010, in occasione di un’altra missione a Detroit. Con mia sorpresa lo avevo rivisto nel 2013 a Paganica, dov’egli era venuto – per la prima volta – a ricercare le sue radici e a conoscere i parenti, ritagliandosi due giorni da un viaggio d’affari in Italia, per acquistare un forno e a caccia di prodotti di qualità per la sua cucina. È sempre un evento incontrare Vince. Ci siamo raccontate le novità, mentre consumavamo un buon pasto caldo e un buon vino italiano. Amico di Sandra ed Enzo, Vince è un generoso e impegnato esponente della comunità italiana ed è stato un dirigente della Federazione Abruzzese del Michigan. La storia della su famiglia è una tessera della storia della nostra emigrazione negli Stati Uniti. Come pure della stessa storia di Detroit nell’ultimo secolo. Suo nonno, Luigi Vivio, era nato nel 1897 a Paganica, bel centro vicino a L’Aquila posto ai piedi del Gran Sasso d’Italia. Luigi aveva servito la Patria, nella Grande Guerra, nel 27° Reggimento di Fanteria. Nel 1920 era emigrato negli States, dapprima fermandosi a New York, poi stabilendosi in Pennsylvania, lavorando nei cantieri di costruzione di linee ferroviarie. Divenne cittadino americano nel 1932, proprio nell’anno in cui a Pittsburgh nacque suo figlio John, il padre di Vince. John Vivio servì gli Stati Uniti nella Marina, durante la guerra di Corea. Rientrato negli States alla fine della guerra, preferì lasciare Pittsburgh per Detroit, per lavorare nell’industria automobilistica.
Nel 1967 John Vivio con sua moglie Shirley, grazie ad un prestito di papà Luigi, rilevano lo storico edificio della Meyfarth’s Hall. Costruita nel 1892, la Meyfarth’s Hall originariamente serviva l’allora circostante comunità tedesca, con un bar al primo piano, una sala sociale al secondo piano e la residenza della famiglia Meyfarth al terzo piano. Nell’edificio, rinominato Vivio’s Food & Spirits, avviano gradualmente l’attività, lavorando molto duramente. Era quello un momento complicato, quando molte altre aziende commerciali stavano fuggendo lontano dalla città a causa dei problemi razziali e delle rivolte in corso. John e sua moglie Shirley hanno lavorato sette giorni su sette in condizioni molto difficili per creare Vivio’s e portarlo al successo di oggi, rinascendo persino da un devastante incendio che nel 1975 aveva distrutto il locale. Ci volle un anno per ricostruirlo e ripartire con l’attività. John Vivio è morto nel 2001 e l’attività è stata rilevata da suo figlio. Vince la porta avanti insieme al socio Mijo Alanis, marito di sua sorella Pamela. Di recente si è aggiunto un terzo partner, David Colling, un amico di Vince da quasi 40 anni, per avviare l’espansione dell’azienda con l’apertura di nuove sedi e la vendita on line dei prodotti enogastronomici. Vivio’s è diventato un punto di riferimento di Detroit, fa ormai parte della storia dell’area del mercato orientale e del sud-est del Michigan.
Recentemente Vivio’s ha celebrato il 50° anniversario di attività. Specialità del locale sono le cozze, gli hamburger, le Bloody Mary – le migliori di tutta Detroit – e ovviamente la porchetta. Ogni sabato nello storico mercato orientale di Detroit si vedrà la brillante squadra di Vivio’s impegnata a servire la lunga fila di centinaia di clienti, fin dalle 8 del mattino! Vivio’s gestisce inoltre una società di specialità alimentari all’ingrosso, vendendo i propri prodotti attraverso distributori in negozi al dettaglio, bar, ristoranti, mercati, nonché attraverso vendite on line, con spedizione dal proprio deposito. L’azienda ha aperto altri due locali nell’area di Detroit ed un terzo nell’alto Michigan. Vincent Vivio è nato nel 1967 a Detroit. Laureato in Lettere moderne all’Università di Oakland, in Michigan, Vince ha grande curiosità culturale. Quando è libero dal lavoro suona a meraviglia la sua chitarra e guida la sua spendente Moto Guzzi. Ha cercato di consolidare le sue radici ricollegandosi con la famiglia d’origine a Paganica, avendo a cuore il rafforzamento delle relazioni con i parenti in Abruzzo. Spera di tornare presto in Italia e magari aprire un ristorante con suo cugino Erasmo Lentini, il miglior pizzaiolo di Paganica e dintorni! E potervi servire anche le sue famose Bloody Mary, una magnifica bevanda alla vodka. Idee molto chiare, quelle di Vince, che ho apprezzato durante la nostra conversazione. Quando lo lascio a fine pranzo non ho mancato di prenotare una cena da lui per il 5 ottobre, per una serata speciale.
Vi arriviamo puntuali alle 7 di sera del venerdì 5 ottobre, con mia moglie Anna e i nostri ospiti e cugini Vittorino Taranta e sua moglie Elena Vincenti, che vivono in una bella casa a Clinton Township. Lui un passato da ufficiale pilota nell’Air Force e poi nell’amministrazione federale della Giustizia ed Elena, emigrata da Paganica dopo il matrimonio, docente di italiano e spagnolo in un liceo di Grosse Point, ora in pensione. Elena è cugina di Anna, sono figlie di due sorelle. E’ una serata speciale per Anna, il suo compleanno. Vince ci fa trovare un tavolo già apparecchiato per 6 persone. Ci presenta Victoria Mastracci Jakel e Craig Mastracci. Sono suoi cugini, la loro nonna era una Vivio. Entrambi nati a Detroit ed entrambi medici, Victoria vive a Norway, piccolo villaggio di circa 2800 abitanti nell’estremo nord del Michigan a confine con il Wisconsin, situato sulla striscia di terra che separa i laghi Michigan e Superiore, suo fratello Craig è anestesista presso il Children’s Hospital di Detroit. La storia della loro famiglia negli Stati Uniti ha inizio con Saverio Mastracci, nato a Paganica nel 1890 ed emigrato in Pennsylvania nel 1916. Solo un ritorno in Italia per il nonno Saverio, nel 1920, per sposare la compaesana Maria Vivio e portarsela in America. Passiamo insieme una splendida serata a raccontarci storie di vita. Come quel singolare incontro in Afghanistan tra due Mastracci, Craig nell’Esercito americano e l’altro Mastracci nell’Aeronautica Militare italiana. Forse lontani parenti, chissà. Quanto è piccolo il mondo! Intanto Vince ci fa servire le leccornie della sua cucina e gli ottimi vini. Infine un eccellente Prosecco e l’immancabile torta con la candelina da spegnere. Una bella serata, nel segno degli affetti e delle radici, sempre vive. L’indomani continuano i miei impegni nelle celebrazioni del Columbus Day, sulle quali abbiamo già riferito qualche settimana fa. Ci aspetta, invece, una trasferta il 9 ottobre a Rochester, nello Stato di New York, per incontrare Mario Daniele. Un aquilano di valore.
Decidiamo di partire in auto di buon mattino, con Anna, Vittorino ed Elena, traversando il Canada. Il cielo è coperto, ma non minaccia pioggia. Anzi, talvolta il sole riesce a farsi vedere. Sull’intestate 94, che sale verso il nord del Michigan, da un lato e l’altro della trafficata arteria gli alberi ad alto fusto disegnano splendide quinte policrome con le loro foglie, cangianti dal verde al giallo, dall’ocra al ruggine, dal rosso al carminio. Una tavolozza di colori che solo madre natura sa comporre nelle sue armonie, rendendo i boschi del Michigan delle vere e proprie opere d’arte naturali. I boschi del Michigan in autunno richiamano visitatori, anche da lontano e apposta per ammirarli. Quest’incredibile spettacolo ci accompagna fin quando all’orizzonte non s’intravvede il profondo blu del lago Huron. Lo vediamo bene poi, sulla sinistra, passando il grande ponte di ferro sul fiume Saint Clair, il Bluewater Bridge, per metà americano e per l’altra canadese. Attraversato il ponte siamo già in Canada, a Sarnia. L’autostrada 402 ci porta verso London tra una lunga sequela di sterminati campi arati e boschi, ogni tanto trapunti da fattorie e da svettanti pale eoliche. Il parossismo e la densità demografica degli Stati Uniti hanno lasciato il passo all’ordinata tranquillità del Canada, già così bello in questa meridionale parte dell’Ontario, la provincia più popolosa tra le 13 della Federazione. Si corre verso est, sulla McDonald Cartier Fwy, poi sulla 403.
Giungiamo ad Hamilton – quanti amici vi ho nella “città dell’acciaio”, ma non possiamo fermarci –, l’attraversiamo nella parte meridionale e lambendo la costa del lago Ontario scendiamo sulla Queen Elisabeth Fwy verso St. Catharines. E’ mezzogiorno quando arriviamo nella città di Niagara Falls. Il tempo d’una visita immancabile alle Cascate e di un pasto. Il cielo è sereno, azzurro, senza una nuvola. L’unica grande nuvola bianca è quella che l’immensa massa d’acqua del fiume Niagara provoca nel precipitare giù per 50 metri, producendo in quell’anfiteatro di roccia lo spettacolo mozzafiato che attira l’ammirazione di milioni di visitatori da tutto il mondo. Sulla sinistra, in territorio americano, l’altra cascata che pur bella non riesce a pareggiare l’intrigo visivo delle Niagara Falls canadesi. Incantevole il contesto ambientale, curatissimo di prati, fiori ed essenze arboree, luccicanti gli arditi edifici al servizio di turisti e visitatori. Di queste meraviglie godiamo la vista, in una giornata davvero calda, quasi estiva, mentre un vivace arcobaleno si stampa nella nuvola di vapore acqueo che copiosamente s’alimenta dall’immane cascata, mentre giù le acque solcate dai traghetti carichi di turisti temerari ribollono di bianca schiuma. Alle 3 del pomeriggio si riparte, verso Rochester. Attraversato il Raimbow Bridge siamo già negli Stati Uniti, ci aspettano poco più di 150 chilometri per arrivare a destinazione. Mario Daniele, per telefono, ci dà l’indirizzo dove ci attende, presso la sede della Daniele Family Companies in Monroe Avenue, all’ingresso di Rochester. Lì accanto c’è anche un suo albergo, dove ha riservato le camere per noi.
C’è gran traffico sull’autostrada che collega Buffalo a Rochester. Siamo tuttavia quasi in orario quando vi arriviamo. Salgo da Mario, nel suo ufficio. E’ pieno di sue foto con importanti personalità delle istituzioni americane ma anche di istantanee nei luoghi di lavoro. Colmano un’intera parete della stanza. Altri documenti richiamano gli anni da vice Console onorario d’Italia, un servizio verso la comunità che egli ha prestato con notevole impegno fino ai suoi settant’anni. Ora sembra che una modifica alla norma possa rendere possibile la carica fino ai 75 anni. Il fatto che se stia occupando l’on. Francesca La Marca, deputata di Toronto eletta nel nostro Parlamento nella Circoscrizione centro e nord America, è già una garanzia d’una cura assidua e attenta della questione. Ma veniamo a Mario Daniele, alla sua storia di vita. Un romanzo davvero da scrivere. Perché Mario capitò per ventura in Canada, nell’ultimo semestre della sua vita militare nell’Aeronautica italiana. Sarebbe lungo raccontare. Fatto gli è che non avrebbe scommesso un centesimo sull’eventualità di venire a vivere negli Stati Uniti. Aveva in Italia già un avviato lavoro con forti propensioni imprenditoriali, a Castelnuovo in provincia dell’Aquila, sull’altopiano che produce lo zafferano migliore del mondo dove castelli e chiese romaniche raccontano secoli di storia. A Rochester, invece, dov’era andato per salutare i parenti, incrociò la sua vita con quella di Flora, compagna di scuola che era emigrata con la famiglia all’età di 8 anni.
Fu il colpo di fulmine. Dopo qualche mese Mario e Flora si sposarono. Alcuni anni li vissero a Detroit, dove condussero una pizzeria. Poi tornarono a Rochester, dove Flora aveva i genitori ed altri parenti. Oggi la famiglia di Mario Daniele, con i figli Anthony e Daniel, ha una ramificata attività con una dozzina di aziende che spaziano dalla ristorazione alla ricettività alberghiera, dalla gestione di porti turistici alle costruzioni edili, dagli impianti di lavaggio per auto alla costruzione di condomìni. E poi in programma c’è un piano di sviluppo per un grande centro commerciale e altri servizi, in un’area nevralgica di Rochester. Altre attività imprenditoriali sono pure avviate in Florida. Tutto nato e cresciuto in mezzo secolo di attività, grazie all’ingegno e alla lungimiranza imprenditoriale di Mario Daniele, arrivato dal Canada negli Stati Uniti con qualche decina di dollari, quando aveva 20 anni. Un self made man, come dicono qui. Una capacità d’intraprendere e un talento che si sposano ad una notevole attitudine alle relazioni, alla valorizzazione delle risorse umane, al lavoro di squadra, alla tenacia nel perseguire gli obiettivi, al carisma nella comunicazione, alla giovialità e ad una sottile ironia che aprono le porte dell’amicizia. A Rochester basta dire “Mario” perché si capisca che ci si riferisce a Mario Daniele.
D’altronde lo si comprende dalla stima e dal prestigio guadagnato con il lavoro, dal rispetto che la comunità italiana gli porta anche per la straordinaria disponibilità di servizio che ha reso generosamente come vice Console, carica onoraria che egli ha interpretato in pienezza di dedizione verso i nostri connazionali. Lo si deduce dal vasto consenso che ha accompagnato le ripetute elezioni di suo figlio Anthony nel Consiglio della Contea. Anthony Daniele è stato per dieci anni Presidente della Contea, forse il più giovane nella storia dell’istituzione, eletto alla presidenza con i voti anche dell’opposizione democratica. Un fatto che la dice lunga in una società politica così contrapposta tra Repubblicani e Democratici. Sono aspetti che, osservati oggettivamente, ci riempiono d’orgoglio e ammirazione. Da abruzzese e da aquilano. E fanno capire come e perché, negli anni seguiti al terremoto dell’Aquila, Mario Daniele sia riuscito a convogliare nella nostra terra martoriata dal sisma una cospicua quantità di aiuti e di gesti di solidarietà, contando sulla generosità dei cittadini di Rochester.
A sera andiamo a cena nel grandioso ristorante Mario’s, accanto agli attracchi turistici del porticciolo, dove penetra una lingua d’acqua del vicino lago Ontario. Con Mario e Flora, Vittorino e Elena, chi scrive con Anna, passiamo una serata di grande cordialità e simpatia, di rimembranze e racconti di vita. La cena è eccellente. Là, nei pressi del ristorante, c’è un grande complesso residenziale. Villette di bella fattura, 350 abitazioni. E’ una recente operazione del ramo costruzioni della Daniele Family. Il contesto ambientale, il pregio architettonico, l’arredo esterno, la qualità delle abitazioni hanno presto favorito la definizione dell’operazione immobiliare con la cessione del complesso ad una compagnia di gestione. Come dire, quando il successo segue un’ottima intrapresa. Bellissima giornata, anche mercoledì 10 ottobre. In programma la visita alla città. Rochester, capoluogo della Contea di Monroe, situata nel territorio un tempo abitato dagli indiani Irochesi, è davvero una graziosa città di oltre duecentomila abitanti, con un’area metropolitana che per vastità e numero d’abitanti è la seconda dello Stato, dopo quella di New York, con quasi un milione di residenti. Numerosa è la comunità italiana, ben inserita ed organizzata in diversi club. Con propri fondi ha costruito l’Italian American Community Center, un superbo complesso di 3500 metri quadrati coperti su 10 ettari, dove vengono svolte attività sociali, culturali e sportive. Rochester, conosciuta da metà Ottocento come The Flour City per via della produzione di farina nei suoi numerosi mulini disposti sul corso del fiume Genesee – ora un’attrazione d’archeologia industriale – è diventata nel secolo scorso The World’s Image Centre per via della Kodak, colosso della fotografia e della cinematografia, che nella città ha la sua sede generale. Città universitaria con diversi atenei, eccelle specialmente nelle discipline della musica, della medicina e dell’economia. Rinomata per le sue iniziative culturali, Rochester è diventata in pochi anni capitale del jazz con l’International Jazz Festival, il più famoso d’America, con duecento concerti in ogni edizione.
L’ammiriamo, la città, entrando nel suo cuore storico, apprezzandone le stupende architetture dei palazzi e delle ville d’inizio Novecento disposte lungo le belle strade alberate, ora con i colori dell’autunno. Un’incantevole città di provincia, a dimensione umana. Quieta e lontana dai fastidiosi parossismi delle metropoli. Nel primo pomeriggio Mario ci porta in visita al Palazzo della Contea, una gradevole costruzione dove stile, architettura, marmi e raffinati stucchi raccontano maestranze italiane. Ne apprezziamo i dettagli architettonici salendo le ampie scalee verso la sommità del quarto piano. Un’ampia vetrata a cupola copre la corte interna, dove affacciano gli ingressi degli uffici dai quattro lati. Stucchi non invadenti ornano le quattro pareti interne della corte, dalla base alla sommità. Dopo un saluto che ci porta la County Executive Cheryl L. Dinolfo, visitiamo l’ufficio del Presidente della Contea e l’aula consiliare. Una grande foto di Anthony Daniele campeggia, ultima nella serie di ritratti dei Presidenti nella storia della Contea. Dalla cordialità con la quale Mario e Flora sono accolti comprendo quanta sia la stima che circonda la famiglia Daniele. Conclusa la visita, Mario ci porta quindi fuori città, all’Italian American Community Center, un centro assai importante per la vita sociale e culturale della comunità italiana. Ha quasi vent’anni di attività alle spalle da quando è stato edificato. Mario ne è stato per alcuni anni presidente. È un complesso imponente, con ampie sale attrezzate e strutture sportive. La giornata volge al tramonto. Stasera Flora e Mario ci tengono a cena nella loro bella casa. Anthony si porta Vittorino in aeroporto. Ha un volo notturno solo strumentale, con il suo aereo. Con loro in volo anche un pilota tutor, anche se Anthony è quasi pronto a volare da solo, di notte. Rientrano soddisfatti, dopo due ore. L’indomani mattina Flora e Mario ci vengono a salutare in albergo. Un abbraccio forte e una grande empatia tra di noi. Ci lasciamo con il desiderio e la nostalgia di rivederci presto. Abbiamo passato due magnifiche giornate, dense di emozioni e di amicizia vera.
Si ritorna a Clinton Twp, facendo a ritroso il percorso dell’andata. Nella serata del 12 ottobre ci attende il matrimonio di Alba e Marvin. La cerimonia si tiene a Troy, presso l’Ocean Prime. Celebra un Pastore evangelico, cognato di Marvin. Alba è figlia di Gigino e Diva Tempestini, nostri amici d’origine paganichese. Ci dicono che è una gioia per loro averci in questa festa, arricchita dalla “sorpresa” che Elvira e Giuseppe – 2 dei quattro fratelli di Diva che vivono in Louisiana – le hanno fatto arrivando senza preavviso da New Orleans. Anche per me è una grande gioia riabbracciare Giuseppe Pieri. Non ci vedevamo da 62 anni, da quando condividevamo gli anni della nostra infanzia a Paganica. Elvira, invece, torna di frequente in Italia ed abbiamo occasione di vederci in paese. Tanti gli altri incontri in questi scampoli di missione in Michigan, con i compaesani che vivono nell’area di Detroit – Ermando, Giocondo, Renate, Italia, Giuseppe e Anna – e tante le feste di famiglia con Giampaolo, Angelo e Iole, i figli di Elena e Vittorino.
Alla vigilia del rientro in Italia incontro Alfonso Caradonna, imprenditore siciliano di San Vito lo Capo che ha ereditato le meritorie attività filantropiche dell’indimenticabile Teresa Nascimbeni, presidente dell’ANFE in Michigan. Alle attività proprie della più antica e prestigiosa associazione italiana nel campo dell’emigrazione – l’ANFE fu fondata nel 1947 da Maria Federici, deputata dell’Assemblea Costituente e componente della Commissione dei 75 che scrisse la bozza della Costituzione italiana – Teresa Nascimbeni fino al giorno della sua scomparsa ha associato un impegno generoso per curare a Detroit centinaia di bimbi da patologie agli occhi presso strutture ospedaliere d’avanguardia. Alfonso Caradonna ne ha raccolto il testimone, continuando quest’opera che nel frattempo s’è innervata anche in un ospedale di Roma. Lasciamo Detroit il 18 ottobre, con il pieno d’emozioni. L’altra Italia, quella che vive fuori dall’Italia, non manca mai di stupirci!
Goffredo Palmerini, com.unica 7 novembre 2018