Il commento di Giulio Meotti (Il Foglio) sulla vicenda di Asia Bibi e sulle crudeltà di un paese (il Pakistan) dove la “legge nera” sulla blasfemia condanna a morte le minoranze religiose.

Il governatore musulmano Salman Taseer e il ministro cattolico Shabaz Bhatti hanno pagato con la vita la difesa di Asia Bibi, la madre cristiana condannata a morte nei primi due gradi di giudizio e scagionata la scorsa settimana dalla Corte Suprema dall’accusa di “blasfemia”. A causa delle sommosse e delle minacce islamiste nel paese, Asia Bibi resta in carcere e diventa ogni giorno più difficile e più rischioso per lei (il mese scorso due detenuti hanno tentato di strangolarla). Come spiega sul New York Times lo scrittore Mohammed Hanif, “la blasfemia è la nuova religione del Pakistan”, in un paese da duecento milioni di abitanti, per il 97 per cento musulmane e un alleato dell’occidente. L’accusa di “blasfemia”, ovvero di aver “offeso” l’onore e i simboli dell’islam, sta riempiendo le pagine di un vero e proprio bollettino di guerra.

In carcere in Pakistan langue Junaid Hafeez, esperto di letteratura che si è formato nelle università americane e da duemila giorni in prigione con l’accusa di “blasfemia”. Il suo avvocato, Rashid Rehman, conosceva i rischi che stava correndo nell’assumerne le difese. Molti altri avevano rifiutato di accettare il caso. Ma Rashid Rehman credeva che ogni imputato meritasse un legale. Rehman era anche il coordinatore della Commissione per i diritti umani del Pakistan e per questo è stato ucciso nel suo ufficio nella città di Multan. Un altro funzionario della commissione, Zaman Khan, ha commentato che “Rehman aveva detto che avrebbe vissuto e che sarebbe morto per la lotta”. Nessuno era intenzionato ad accettare la difesa di Hafeez fino a quando Rehman si è fatto avanti. La Commissione dei diritti umani ha rivelato: “Durante l’udienza, gli avvocati del denunciante hanno detto a Rehman che non sarebbe stato presente alla successiva udienza, poiché non sarebbe stato vivo”. Ci sono quattordici persone nel braccio della morte in Pakistan e altre diciannove che scontano condanne all’erga – stolo per “insulti all’islam”. Non è arrivato nemmeno a processo il professor Muhammad Shakil Auj. Gli imam delle madrasse lo avevano condannato a morte. Auj era il preside della facoltà di Studi islamici dell’Università di Karachi, la più importante del Pakistan. Si definiva “musulmano liberale”, teneva lezioni sull’islam negli Stati Uniti e aveva scritto libri sul Corano e l’islam, a favore del matrimonio fra musulmani e persone di diversa confessione, per l’abrogazione della “legge nera” sulla blasfemia che condanna a morte i cristiani come Asia Bibi. Lo hanno ucciso nel porto di Karachi. Mashal Khan era uno studente di giornalismo all’università. Un gruppo di studenti lo aveva accusato di pubblicare contenuti “blasfemi”.

Gli hanno sparato alla testa. Si definiva un “umanista”, Khan. Shahzad e Shama, marito e moglie cristiani, sono stati torturati e arsi vivi nel Punjab dopo una accusa di blasfemia. È di 1,130 il numero di persone uccise negli ultimi anni in atti mirati di violenza contro le comunità religiose, secondo la Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa. Il pastore Zafar Bhatti, presidente della Jesus World Mission in Pakistan e in prigione da due anni con l’accusa di blasfemia, è stato ucciso da un poliziotto nel carcere di Rawalpindi. Tahir Iqbal, un musulmano convertito al cristianesimo, è stato avvelenato a morte. Il giudice Arif Iqbal Bhatti ha pagato con la vita aver assolto dei “blasfemi” (la stessa fine che gli islamisti vorrebbero far fare ai giudici che hanno assolto Asia Bibi). Hafiz Farooq Sajjad, musulmano, è stato lapidato dalla folla perché la sua copia del Corano avrebbe misteriosamente “preso fuoco”. L’imam Muhammad Yousuf Ali predicava la tolleranza ed è stato assassinato in carcere dalle guardie. A Rimsha Masih, incarcerata con l’accusa di aver strappato una pagina dalla sua copia del Corano, è andata meglio ed è riuscita ad abbandonare il Pakistan esiliandosi in Canada. È una fuggitiva che potrebbe ancora rischiare la morte. È la sorte più ottimistica a questo punto da augurare ad Asia Bibi. L’alternativa sarebbe la morte per mano di un giustiziere di Allah.

(Giulio Meotti, Il Foglio 6 novembre 2018)

Qui è possibile firmare l’appello, rivolto dall’autore dell’articolo alle massime autorità italiane, affinché l’Italia conceda subito ad Asia Bibi il diritto di asilo e le fornisca tutta la protezione politica e diplomatica di cui ha bisogno.

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