Una nota dello storico Mario Setta: la volontà di non dimenticare nessuno è stata e continua ad essere stimolo ad una memoria che non può e non deve essere cancellata.

Parlando delle innumerevoli morti della Prima Guerra mondiale, uno storico recentemente scomparso, Alfredo Fiorani, ha scritto “L’immortalità delle vittime. Gli abruzzesi alla grande guerra” (2015). Un libro affascinante, nella sua brevità e nella sua polarizzazione sull’Abruzzo e gli abruzzesi, nel periodo della prima guerra mondiale. La gente d’Abruzzo come grande famiglia in guerra, con i suoi eroi e le sue tragedie. Una panoramica accurata, senza cedimenti alla retorica. Un libro che si legge con passione, perché racconta luoghi e persone familiari, anche se scomparse da tempo, ma che restano (o dovrebbero restare) “immortali” nella memoria.

Se storici come Febvre, Braudel, Le Goff hanno sempre sottolineato il concetto che “la storia è l’uomo”, diventa necessario e importante raccoglierne il suggerimento, focalizzando la ricerca sugli uomini abruzzesi che parteciparono e morirono in quella “inutile strage”. A distanza di un secolo si può meglio capire perché fu “un’inutile strage”, per usare l’appellativo di papa Benedetto XV. I dati statistici sono per se stessi eloquenti: in totale 65 milioni di combattenti e 13 milioni di morti (20%). Per l’Italia, che entrò in guerra nel maggio dell’anno successivo, si ebbero 6 milioni di richiamati alle armi e 600 mila morti (10%). Una guerra che si svolse in un territorio piuttosto ristretto (guerra di posizione), ma che coinvolse l’Italia intera, l’Europa e il mondo, tanto da essere definita dagli storici “guerra totale”.

L’epidemia “spagnola” falcerà parecchie vite dei prigionieri, tanto che al Cimitero Comunale di Sulmona resta ben visibile il sacrario con oltre quattrocento nomi, scolpiti sulle quattro facciate della piramide-ricordo. Erano le vite dei prigionieri di guerra, rinchiusi nel campo di concentramento di Fonte d’amore, aperto nel 1916 proprio per accogliere i prigionieri austro-ungarici. Furono utilizzati nei lavori di rimboschimento del Morrone e, probabilmente, nella costruzione dei cosiddetti “Pozzi”, di stile mitteleuropeo, per rifornire di acqua potabile l’Abbazia Celestiniana e le abitazioni limitrofe.

Pozzi costruiti dai prigionieri austro-ungarici a Fonte d’amore, nei pressi di Sulmona.

È interessante come la volontà di non dimenticare nessuno è stata e continua ad essere stimolo ad una memoria che non può e non deve essere cancellata, abbandonata alla “damnatio”, ma conservata anche attraverso il tributo dei paesi ai loro eroi, edificando monumenti con l’elenco di tutti i caduti in guerra. Resta il fatto che l’opera fondamentale è quella di ridare vita ai personaggi che hanno segnato profondamente quel tempo e quella storia.

Andrea Bafile, nato nel 1878 a Monticchio di Bagno, aveva studiato all’Accademia navale di Livorno, partecipando alla guerra, anche in azioni pericolose, come la spedizione alle bocche del Cattaro, con D’Annunzio, dove riporta una lesione alla cornea dell’occhio sinistro. Ma troverà la morte sul Piave, l’11 marzo 1918, colpito mortalmente, mentre va alla ricerca di uno dei suoi arditi. Oggi le spoglie di Bafile riposano nel sacrario di Bocca di Valle nel comune di Guardiagrele.

Umberto Pace, nato a Pettorano nel 1894, a venti anni assegnato al reggimento di Fanteria a San Remo. A 21 anni, il 14 agosto 1915, muore in combattimento lungo l’Isonzo. A Pettorano, sulla targa-ricordo è scritto: “Non curante del nutrito fuoco avversario, nell’ultima impresa, lasciava gloriosamente la vita”. Gli fu intitolata una caserma di fanteria, a Sulmona.

Vittorio Dellorto, maggiore piemontese, si trovava a Sulmona con la famiglia, quando viene richiamato. Muore il 4 agosto 1915 sulle asperità carsiche del San Michele. Al figlio, Peppino, anche lui in guerra, non venne concesso il permesso di raggiungere la madre a Sulmona e per confortarla scriveva: “Povero papà morto per la sua patria… Forte e coraggiosa sopporta la sventura che il destino ha voluto mandarci”. Peppino sarà fatto prigioniero sull’Isonzo nel 1917 e deportato al campo di Celle in Germania, descritto da Carlo Emilio Gadda nel “Giornale di guerra e di prigionia”.

Francesco Rossi, nato a Paganica nel 1865, entra nel reggimento di cavalleria e ne diventa colonnello. Lo storico compaesano e parente, Gioacchino Volpe, lo ricorda così: “Venne poi la guerra. Quattro anni di guerra o poco meno. Venne l’ottobre-novembre 1917, cioè Caporetto, il ripiegamento di tutto il fronte… Grossa azione a Pozzuolo del Friuli… E allora il vecchio colonnello, già ferito, il viso sanguinante, spronò alla testa dei suoi cavalieri, per rompere il cerchio. Lì morì.” Era il 9 novembre 1917.

Le memorie di quella guerra non hanno ancora scritto la parola fine, perché si continua a scavare negli archivi, nei documenti familiari, nelle memorie come quelle del cappellano militare Giuseppe Abate o quelle riguardanti la solidarietà espressa nei confronti della popolazione terremotata della Marsica dai “triestini” con Nazario Sauro, “che si prodigò senza risparmiarsi”; l’amicizia tra don Placido Carnevale di Capracotta e lo scrittore Ernest Hemingway, autore di “Addio alle armi”, e perfino il colossale business post-bellico della pandemia “la spagnola”, che causò dai 40 ai 100 milioni di decessi. Il recente incontro dei capi di Stato, a Parigi, per ricordare il centenario della fine della prima guerra mondiale non può ridursi ad una semplice stretta di mani, ma sfociare in un trattato che impegni ogni Stato a costruire un vero mondo di pace.

Mario Setta, com.unica 14 novembre 2018 

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