Il denominatore comune del populismo
Da un professore dell’Università di Berkeley una riflessione sull’ondata ondata populista che investe il pianeta con la falsa promessa di ripulire il “caos” dei propri paesi con qualsiasi mezzo necessario.
Dopo l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della Francia nel maggio del 2017, le élite globali hanno tirato un sospiro di sollievo. Erano convinti che l’ondata populista avesse raggiunto l’apice. Gli elettori avevano riacquistato il buonsenso. Aiutata da un sistema elettorale in cui i due principali candidati si affrontavano in un secondo round, la “silente maggioranza” si era riunita attorno al candidato centrista nel ballottaggio.
Ma ora si svolte le elezioni presidenziali del Brasile, in cui Jair Bolsonaro, che mostra le tendenze autoritarie contro il sistema e contro gli stranieri di un populista da manuale, ha segnato una vittoria schiacciante nel secondo turno. Un sistema elettorale a due turni in cui il ballottaggio mette un outsider populista contro la posizione dell’ultimo candidato principale non è una garanzia, evidentemente, per i centristi.
Una lezione simile arriva dalle elezioni indette all’inizio di quest’anno in Italia. Le regole elettorali del paese sono state trasformate per aggiungere un elemento maggioritario al sistema di rappresentanza proporzionale, con l’obiettivo di incoraggiare la costruzione di una coalizione preelettorale tra i principali partiti. Invece, ha portato a una coalizione tra sinistra e destra populiste. L’ingegneria elettorale, così sembra, non è solo inefficace nel respingere la minaccia estremista, ma può anche avere conseguenze controproducenti o non intenzionali. Per contenere il populismo serve quindi più di un sistema elettorale ben congegnato. Bisogna affrontare le lamentele alla base del rifiuto degli elettori di sostenere politici e partiti convenzionali.
Sfortunatamente, non c’è accordo sulla natura di queste lamentele e quindi non c’è consenso su come rispondervi. Una visione, naturalmente supportata dagli economisti, è che le lamentele economiche sono alla base della rivolta populista. L’Italia registra una stagnante crescita della produttività da oltre vent’anni, mentre la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, è cresciuta a livelli devastanti. Il Brasile, essendosi abituato solo recentemente allo status di economia in rapida crescita, ha attraversato una massiccia recessione nel 2015-2016, e il 2018 si profila come un altro anno cupo.
Anche gli Usa si inseriscono stranamente in questo quadro. All’epoca delle elezioni del 2016 che hanno portato il presidente Donald Trump al potere, l’economia americana aveva registrato un’espansione per sei anni consecutivi. Questo serve a ricordare che il populismo riguarda più che la crescita economica. Riguarda la distribuzione, che si delinea ora come un problema sia in Italia che in Brasile. E riguarda l’insicurezza economica: anche coloro che stanno raccogliendo benefici ora dubitano sulla possibilità o meno che per loro o i loro figli vi siano benefici futuri.
L’espansione americana dovrebbe almeno far riflettere chi è favore dell’interpretazione strettamente economica dell’attuale ondata di populismo. In alternativa, l’attuale ondata di populismo viene vista come una risposta alla minaccia percepita, tanto politica quanto economica, da parte dei cosiddetti outsider rispetto al gruppo culturale dominante. Per i populisti italiani come Matteo Salvini, ciò significa immigrati, soprattutto le persone di pelle scura provenienti dall’Africa il cui status di outsider ce l’hanno stampato addosso. Per Bolsonaro, significa minoranze razziali, donne e altri gruppi che sfidano l’egemonia della classe lavoratrice bianca. Trump mostra entrambe le tendenze, affermando senza mezzi termini che i terroristi del Medio Oriente si nascondono tra i migranti e i richiedenti asilo provenienti dall’America centrale, e rafforzando l’anima razziale, religiosa e antifemminista del suo elettorato.
Tuttavia, però, l’attuale comportamento elettorale non rientra nitidamente tra le previsioni. Bolsonaro ha ricevuto un sorprendente numero di voti dagli elettori neri. Trump ha ottenuto supporto da un forte gruppo di donne nelle elezioni svoltesi subito dopo la diffusione del noto video “Access Hollywood”, in cui si sentiva Trump vantarsi delle aggressioni sessuali commesse.
Ciò che unisce i sostenitori di questi politici di fama recente deve essere qualcos’altro. Il principale ingrediente è la ripugnanza contro la corruzione del processo politico. Gli elettori sono attratti dagli outsider politici – più sono autoritari meglio è – che promettono di “prosciugare la palude”. E qui risiede l’appello di Trump e Bolsonaro, che promettono di ripulire il “caos” dei propri paesi con qualsiasi mezzo necessario. La corruzione e l’inefficienza di una serie di coalizioni tradizionali, e la promessa degli outsider di fare meglio, credibile o no, motiva verosimilmente anche i sostenitori italiani della destra leghista e della sinistra pentastellata.
Sfortunatamente, gli elettori non hanno modo di valutare chi si stia realmente impegnando per sradicare la corruzione. E delegando questo compito a un leader con tendenze autoritarie, gli concedono di ripopolare la palude invece di prosciugarla – semplicemente sostituendo i vecchi alligatori con i nuovi. Abbiamo già visto questa tendenza negli Usa. Stiamo per riviverla in Italia e in Brasile.
Gli elettori impareranno a proprie spese come l’autoritarismo inasprisca anziché mitigare la corruzione, perché abolisce i controlli e correttivi su chi spinge la leva del potere. Una volta appresa questa lezione, forse ridaranno ai politici tradizionali e al processo democratico un’altra chance. Sfortunatamente, fino a quel momento le istituzioni politiche e la società civile subiranno notevoli danni.
Barry Eichengreen*, Project-syndicate novembre 2018
*Barry Eichengreen è professore di Economia all’Università della California di Berkeley ed è stato in passato consulente presso il Fondo Monetario Internazionale. Tra le sue opere ricordiamo La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida dell’innovazione (Il Saggiatore).