MEMORIA 1938, il silenzio dei giuristi
La relazione di Giuliano Amato al Convegno sulle leggi razziali presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Genova (La Stampa)
Quando ci occupiamo della tragedia delle leggi razziali, gli ingredienti che la segnano sono purtroppo sempre gli stessi: da un lato la strategia della persecuzione, nei suoi presupposti, nelle sue modalità, nei suoi fini. Dall’altro gli effetti e le reazioni che essa provoca, da quelle dei contemporanei a quelle di chi verrà dopo. Pur preceduto da tanti minacciosi segnali nel corso degli anni – non tanto quelli della storia plurisecolare, ma, più da vicino, la virulenza della Civiltà Cattolica di fine Ottocento, gli scritti sulla razza dei primi Anni Trenta e poi, soprattutto, la vicenda coloniale (che aveva introdotto nella legislazione la difesa della razza bianca) – l’arrivo di quelle leggi, preceduto in rapida sequenza dal Manifesto sulla razza, parve a molti ebrei italiani un fulmine inatteso.
Il regime aveva definito il loro trattamento nelle discipline post concordatarie, la vita si era assestata su quei binari al punto che tanti di loro erano diventati fascisti o comunque estimatori del fascismo. Fu difficile perciò capire tanta sudditanza alla Germania e il bisogno, in un tempo che per il regime non era ancora amaro, di un capro espiatorio, il solito. Certo si è che il Manifesto, il 5 agosto 1938, già precisa che gli ebrei non appartengono alla razza ariano-italica. Poi i decreti legge e le leggi che tra il settembre e il novembre di quell’anno e poi sino al giugno 1939 smantellano la vita degli ebrei: esclusione dalla scuola, dalle professioni e dagli impieghi, dalla proprietà, dal matrimonio, sino ai limiti alla capacità previsti in via generale dall’articolo 1 del nuovo Codice civile.
Ne esce una spoliazione di diritti e facoltà, che non ha paragone nelle discriminazioni a cui altri erano stati e continueranno a essere assoggettati, si tratti di donne, di persone di colore, di stranieri immigrati. Nel caso degli ebrei vale a portare alla eliminazione. La privazione dei diritti, che prepara la privazione delle vite (come dirà anche la Corte Costituzionale in una sua sentenza del 1998, la n. 268). Nonostante questa sconvolgente enormità, l’accoglienza dei giuristi fu molto più prossima alla «soverchia pavidità» di cui poi parlò uno che pavido non fu, Domenico R. Peretti Griva, che non alla coraggiosa ripulsa di alcuni.
Mi sono domandato se e quanto, a raggelare i giuristi (e non solo loro) in questa codarda passività, possano aver contribuito prese di posizioni, nette e aggressive, come quella di Gaetano Azzariti, che disse, in quella temperie: «Finalmente è stato messo in soffitta il dogma dell’eguaglianza». Era un valore, era un principio al quale la storia umana sempre più aveva cercato di avvicinarsi. Era giusto essere eguali. Poi arriva il razzismo, ritorna la caccia all’ebreo, c’è chi la condivide, ci sono tanti a cui conviene (anche i giuristi, professori e avvocati che si trovano così liberi posti prima occupati), ci si vergogna ad aver dentro voglia di diseguaglianza, ma finalmente qualcuno lo dice. E il lato oscuro di Camelot viene felicemente alla luce, senza più remore e senza vergogne. Le conseguenze di quella caccia all’ebreo, nel contesto disastroso per tutta l’umanità della Seconda guerra mondiale, ricacciarono in fondo il lato oscuro di Camelot e la reazione a quei disastri fu un rimbalzo straordinariamente positivo. La tutela della dignità entrò prepotentemente nelle nuove Carte della Comunità internazionale e delle Costituzioni nazionali. La nostra Corte Costituzionale, non diversamente da quella spagnola, ha affermato l’esistenza di un «nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, come ambito inviolabile della dignità, da riconoscersi anche agli stranieri, qualunque sia loro posizione rispetto alle norme riguardanti l’ingresso o il soggiorno dello Stato».
Do grande importanza alle ragioni della sicurezza e so bene quali conseguenze provochi in tanta gente il sentirsene privi, mentre intorno arrivano sempre più sconosciuti, che parlano lingue diverse, che hanno abitudini diverse e che a volte praticano anche la violenza. La diffidenza cresce, la stessa xenofobia cresce. Ma tutto dipende dall’uso politico che se ne fa. La si può mettere sotto controllo, mettendo sotto controllo i flussi di ingresso, combattendo la criminalità e garantendo i diritti e le giuste protezioni di tutti, ma riaffermando così nello stesso tempo i principi della nostra civiltà. Oppure uscendosene, nel medesimo clima di ostilità e di paura, come fece Azzariti: mettiamo in soffitta questi dogmi. Ancora una volta, nonostante i decenni di Carte dei diritti che abbiamo alle spalle, il lato oscuro di Camelot tornerebbe alla luce. Non è successo, ancora, ma potrebbe succedere. Non facciamo come allora. Non sarebbe consentito, non sarebbe perdonabile.
Giuliano Amato, La Stampa, 18 novembre 2018