Scrivere significa capire e amare le vite degli altri
David Grossman, che ha ricevuto il Premio per la tolleranza del Museo ebraico di Berlino, spiega perché fare letteratura è un atto politico che nasce da un profondo esercizio di comprensione. Anche dei propri “nemici”.
Questo illustre premio per la tolleranza e la comprensione mi viene consegnato esattamente ottant’anni dopo la Notte dei Cristalli in un luogo – il museo ebraico di Berlino – denso di significato e in un contesto in cui quasi ogni parola, e certamente termini come tolleranza, comprensione, pluralismo, umanità, hanno una cassa di risonanza potente e talvolta tragica. Il premio ha anche un significato politico: esprime il sostegno alla volontà e alla lotta per arrivare alla pace tra Israele e i palestinesi. Non posso tuttavia fare una distinzione fra il me politico e il me scrittore, né tra il me scrittore e il me uomo. Dirò qualche parola su un particolare tipo di tolleranza e di accettazione degli altri insito nella letteratura e rilevante anche nella sfera politica. Un tipo di tolleranza e accettazione che consente allo scrittore – e di conseguenza anche al lettore – di sperimentare il mondo tramite la coscienza, l’anima e il corpo di un’altra persona, sconosciuta e talvolta nemica.
Vi racconterò una piccola storia. Poco più di dieci anni fa ero impegnato nella stesura del romanzo A un cerbiatto somiglia il mio amore la cui protagonista, una donna israeliana di nome Orah, si allontana da casa per sottrarsi alla notizia della morte del figlio in guerra. Dopo avere scritto di Orah per circa due anni e avere lottato con lei, avevo ancora la sensazione di non riuscire a capirla veramente. Di non conoscerla come uno scrittore dovrebbe conoscere il personaggio di cui scrive. Non percepivo in lei quel fremito di autenticità, di verità e di vita senza il quale non posso credere nel personaggio che narro, essere quel personaggio. Alla fine, non avendo scelta, ho fatto quello che ogni bravo cittadino nella mia situazione avrebbe fatto: mi sono messo a tavolino e ho scritto una lettera a Orah. Una lettera semplice, come si faceva una volta, con carta e penna, dal mio cuore al suo.
E nella lettera le ho chiesto: Orah, che succede? Perché mi respingi in questo modo, perché non ti concedi a me? Ma ancor prima di completare la prima pagina ho capito il mio grande errore: non era Orah che doveva concedersi a me. Ero io che dovevo concedermi a lei. In altre parole, dovevo smettere di opporre resistenza alla possibilità che Orah esistesse dentro di me. Lasciarmi andare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto il corpo alla possibilità che dentro di me ci fosse una donna. Quella particolare donna. Dovevo lasciare che le particelle del mio spirito fluissero liberamente, senza freni e senza paura, verso la potente calamita di Orah e la femminilità che irradiava. Da quel momento in poi Orah ha quasi scritto se stessa da sola. La creazione è la possibilità di toccare l’infinito. Non un infinito matematico o filosofico: un infinito umano.
Gli infiniti volti dell’uomo, le infinite pieghe della sua anima, i suoi infiniti pareri, opinioni, istinti, abbagli, piccolezze, grandezze, forze creative e distruttive, le sue infinite combinazioni. Quasi ogni mia idea su un personaggio di cui scrivo mi apre innumerevoli possibilità, innumerevoli tratti del suo carattere: un giardino di sentieri che si biforcano. È quasi banale emozionarsi per qualcosa di tanto scontato, ma oggi concedetemi di farlo: noi – noi tutti – siamo pieni di vita. In ognuno di noi ci sono illimitate possibilità e modi di essere, di vivere. Ma forse questa non è affatto una cosa scontata. Forse è qualcosa che dovremmo ricordare continuamente a noi stessi. Guardate infatti quanto stiamo attenti a non vivere la profusione che è in noi, tutto ciò che le nostre anime, i nostri corpi e le circostanze della nostra vita ci offrono. Molto in fretta, già ai primissimi stadi della vita, ci raggrumiamo, ci riduciamo a essere “uno”: un solo corpo, una sola lingua (o al massimo due) con la quale diamo un nome alle cose, un solo genere. Ognuno di noi racconta una propria “storia ufficiale” tra le tante possibili, che talvolta si trasforma in una prigione. E quello di trasformarci in prigionieri della storia ufficiale che ci raccontiamo è un pericolo, peraltro, in agguato non solo per gli individui ma per intere società, stati e popoli. Scrivere è un movimento dell’anima contro quella riduzione, contro la rinuncia alla profusione.
La creazione letteraria è il movimento sovversivo dello scrittore, in primo luogo contro se stesso. Più prosaicamente potrebbe essere paragonata a un massaggio che lo scrittore fa di volta in volta, ostinatamente, alla propria cauta, inibita e impaurita coscienza. Per me, scrivere significa essere libero di muovermi con agilità e leggerezza lungo l’asse immaginario tra il bambino che ero e il vecchio che sarò, tra l’uomo e la donna che sono, tra sanità mentale e follia, tra il me israeliano e il palestinese che sarei potuto essere se fossi nato 500 metri più a est. E sono sicuro che dal momento in cui concederemo a noi stessi di percepire questa libertà di movimento (e l’arte è un modo meraviglioso per farlo) toccheremo anche l’essenza della tolleranza politica in tutte le sue declinazioni: nei conflitti tra i popoli come nella sfida posta dai profughi che affluiscono in Europa. La tolleranza nasce dalla disponibilità di sentire e comprendere l’altro dentro di noi, anche quando l’altro ci minaccia perché è diverso, e incomprensibile. Anche quando l’altro è nostro nemico dichiarato.
Vorrei ricordare le parole di un grande filosofo politico del XX secolo, John Rawls, che si ricollegano a quanto detto. Rawls disse che nello stabilire le leggi di uno Stato che vorremmo giusto, dovremmo porci come dietro a un velo d’ignoranza che ci impedisca di sapere cosa saremo quando quel velo sarà sollevato. In altre parole quando ci diamo delle leggi o, in generale, delle regole di condotta tra esseri umani, o decidiamo una linea politica governativa su un tema fondamentale e cruciale, non sappiamo chi saremo quando il velo d’ignoranza sarà sollevato: se osservanti o laici, ricchi o poveri, parte della maggioranza o della minoranza, uomini o donne, gay o etero, cittadini o rifugiati. Provate a fare questo esercizio mentale. È un modo meraviglioso per vedere, d’un tratto, il mondo e la realtà delle nostre vite da una prospettiva diversa.
La tolleranza, in sostanza, è la disponibilità a leggere la realtà (il conflitto tra israeliani e palestinesi, ad esempio, o i cinquantun anni di occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele) non solo con gli occhi di noi israeliani ma anche con quelli del nostro nemico. A concederci di sperimentare, anche se per poco, la sua storia, la sua giustizia, la sua sofferenza, gli errori che commette, i punti di cecità nei nostri confronti. Se così faremo il nostro contatto con la realtà sarà molto più profondo e completo. La realtà non sarà soltanto una proiezione delle nostre angosce profonde né dei nostri desideri assurdi. Sarà qualcosa di molto più autentico. E a quel punto potranno nascere comprensione, tolleranza e accettazione dell’altro, della sua diversità, della sua differenza.
E forse, a distanza di anni, dopo che i veleni di una lunga guerra si saranno dissolti dall’apparato circolatorio dei due popoli ostili, potranno emergere curiosità reciproca, apprezzamento e anche una certa empatia. Più di questo è difficile sperare per ora ma se ciò avverrà, sarà la realizzazione di un sogno
© David Grossman/Repubblica, 22 novembre 2018
*Traduzione di Alessandra Shomroni