L’editoriale del direttore de La Stampa, Maurizio Molinari

Benjamin Netanyahu è accolto dal Sultano dell’Oman, le note dell’«Hatikwa» vengono suonate negli Emirati, l’Arabia Saudita si protegge con tecnologia israeliana, il sovrano del Bahrein invita ministri dello Stato ebraico e il Qatar si accorda con Gerusalemme per inviare ingenti aiuti alla Striscia di Gaza: quanto avvenuto nell’ultimo mese dimostra che la novità in Medio Oriente è lo scongelamento dei rapporti fra le monarchie del Golfo e Israele. Si tratta di un processo in pieno svolgimento e dalle conseguenze ancora difficili da prevedere anche se è già possibile individuare i tre fattori che lo hanno innescato.

Primo: sul piano strategico lo Stato ebraico e i Paesi arabi del Golfo si sentono ugualmente minacciati dall’Iran di Ali Khamenei a causa delle mosse di Teheran su programma nucleare, riarmo balistico e sostegno a gruppi terroristici o ribelli sciiti. 
Secondo: sul fronte economico monarchi, sultani ed emiri vedono la possibilità di creare un’alleanza fra risorse naturali in loro possesso ed alta tecnologia israeliana capace di trasformare quest’angolo di pianeta in un protagonista dell’economia globale. 
Terzo: per i leader arabi del Golfo come per Israele il riferimento è il presidente Donald Trump che ha riassegnato all’America il ruolo di tradizionale protettore dei propri alleati nella regione, archiviando le incertezze del predecessore Barack Obama. L’interrogativo davanti a tale processo di riavvicinamento è fino a dove può arrivare ovvero se può portare a favorire una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Da qui l’attenzione per le parole di Marc Schneier, il rabbino di New York divenuto uno dei canali informali di questa nuova stagione diplomatica.

Per i Paesi del Golfo la questione palestinese resta importante – spiega Schneider – ma mentre prima affermavano di non poter avere contatti con Israele fino alla sua soluzione, ora ritengono che i due processi possano essere contemporanei». Questo spiega perché il sultano Qaboos dell’Oman ha invitato Netanyahu nel suo palazzo, perché ad Abu Dhabi la medaglia d’oro nel judo ha portato a suonare a cielo aperto l’inno nazionale israeliano alla presenza del ministro Miri Regev, perché il Bahrein ha invitato un altro ministro israeliano a Manama in aprile così come perché, secondo il quotidiano arabo «Al Arabi Al Jadid», l’Arabia Saudita vuole formare un «Quartetto arabo» – con Egitto, Giordania e palestinesi – per negoziare con Israele la risoluzione del conflitto centenario, iniziato con l’opposizione a fine Ottocento delle tribù arabe all’arrivo nella Palestina ottomana dei pionieri sionisti in fuga dalle persecuzioni dello zar. Dietro il sostegno di Riad a tale svolta ci sono crescenti legami economici e militari con Israele – inclusa la difesa dei palazzi reali dai droni armati di bombe lanciati dai ribelli Houthi in Yemen – ma anche qualcosa di più: la maturata convinzione nei leader religiosi sunniti che Israele sia parte integrante dell’ebraismo, superando così la precedente ostilità al sionismo come «entità coloniale». 

Si spiega così la decisione del sovrano del Bahrein di reagire all’annuncio di Trump sul trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme con l’invio di una folta delegazione di leader religiosi sunniti che si è recata in visita ai luoghi santi della città vecchia. Manama d’altra parte è l’unica capitale araba del Golfo ad ospitare ancora una comunità ebraica e ciò aumenta il significato dell’avvicinamento a Israele, fino al punto da far prevedere al tam tam regionale che possa essere proprio il Bahrein la prima monarchia ad allacciare formali legami diplomatici con lo Stato ebraico. 

A ciò bisogna aggiungere che Netanyahu vanta anche un dialogo informale con il Qatar, ancora isolato da tutti i suoi vicini. Le relazioni fra Gerusalemme e Doha si concentrano su Gaza perché gli aiuti, economici ed umanitari, che l’Emiro Al-Thani fa arrivare alla Striscia sono considerati da Israele un fattore di stabilità, capace di creare una cornice diversa anche nei rapporti con gli acerrimi nemici di Hamas. 

Come se non bastasse c’è anche il Sahel in movimento: il presidente del Ciad, Idriss Deby, si è recato nei giorni scorsi a Gerusalemme – dopo 46 anni dalla fine delle relazioni – affermando che l’aiuto israeliano contro i gruppi jihadisti nel Sahara «ha posto le premesse per una ripresa dei rapporti che interrompemmo nel 1972 solo perché obbligati dal colonnello libico Moammar Gheddafi». L’amministrazione Trump considera tali e tanti sviluppi la premessa di un nuovo possibile assetto del Medio Oriente, al fine di isolare l’Iran e ridimensionare il ruolo della Russia, mentre l’Europa appare ancora alla finestra, incapace di cogliere le significative novità che stanno maturando sul lato opposto del Mediterraneo.

Maurizio Molinari, La Stampa 2 dicembre 2018

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