Oz, la ‘Forza’ di raccontare una vita d’amore e di tenebra
Fiamma Nirenstein ricorda per Il Giornale il grande scrittore israeliano: nel tempo resterà la vergogna di un premio Nobel che non gli fu mai assegnato.
Sì, il Premio Nobel l’avrebbe dovuto ricevere, perché i suoi libri sono meravigliosi quali che siano le idee di chi legge, la sua lingua originale è radicata nella Bibbia con un piglio polemico di pensatore laico (come Agnon scriveva in piedi sul leggìo), i suoi pensieri d’amore sono intricati e spietati come quelli di Shakespeare, la sua grinta conoscitiva è stata quella di un Faust, il suo odio per la guerra appassionato ma consapevole della furia inevitabile dei nemici. È stata una spina per lui non aver ricevuto il premio, ma era troppo israeliano perché Stoccolma lo premiasse.
Amos Oz lascia il mondo a 79 anni dopo una lunga malattia, per gli italiani era lo scrittore di sinistra che insieme a Abraham B. Yehoshua e a David Grossman era degno di occupare gli scaffali nonostante fosse israeliano, perché era pacifista e critico verso il proprio Paese. Ma Oz era ben più di questo. Il pacifismo è stato davvero una parte piccola di Amos Klausner, nato a Gerusalemme nel 1939, cresciuto da Fania, la madre polacca colta e raffinata, e da Yehuda Arieh Klausner, nato in Lituania. Amos – che ho avuto la ventura di incontrare varie volte – era troppo persino alla vista, era la bellezza e la profondità impersonificate, quello che il sionismo ha voluto rappresentare al suo meglio: la risposta del popolo ebraico alle persecuzioni millenarie, alla Shoah, alla morte.
In una vita conclusa nel deserto del Negev, la personalità così perfetta da farsi talora altezzosa di Amos Oz ha prodotto 40 libri tradotti in decine di lingue, 450 articoli e saggi, ha ricevuto 64 fra premi letterari, lauree e riconoscimenti ad honorem. Amos a 15 anni, dopo un’infanzia nell’involucro della élite ashkenazita intellettuale e guerriera capace di fondare fra mille difficoltà economiche e belliche lo Stato d’Israele, decide di andare a stare nel kibbutz Hulda e lascia Gerusalemme. È là, nel distillato della tzionut, il sionismo vissuto per trasformare un popolo oppresso e perseguitato in un popolo vivente e vincente che Oz, il cui nuovo nome significa «Forza», con intensità titanica si libera dalla sofferenza che ha invaso la sua vita e intraprende la strada della scrittura.
«Avrei voluto essere un architetto – disse una volta – ma il destino mi ha voluto scrittore. Diventi scrittore a causa di una ferita. Ci sono quelli che per questo divengono criminali, o santi. Per me è andata così, le parole sono diventate la mia strada, la mia storia». Le ferite di Amos Oz, oltre a quella generale della guerra permanente che ha combattuto nel Nahal, l’unità che insieme alle armi pratica l’ideale del senso di comunità e fratellanza, nella guerra del Sei Giorni e in quella del Kippur, sono state terribili. La madre, in preda a depressione, si suicidò all’età di 52 anni quando Amos ne aveva 12 e il padre, scrive Oz in Una storia di amore e di tenebra, «l’11 ottobre 1970, quattro mesi dopo il suo sessantesimo compleanno, si alzò come al solito di buon mattino… si fece la barba, si profumò si umettò i capelli prima di spazzolarli all’indietro, mangiò un panino spalmato col burro… lesse il giornale e sospirò varie volte… si annodò la cravatta… parcheggiò… comprò… scherzò con la proprietaria, pregò di salutare il caro marito… raggiunse la porta e cadde morto sul colpo. La sua scrivania l’ho ereditata io, su di essa sono state scritte queste pagine senza una lacrima dal momento che mio padre era contrario di principio alle lacrime».
«I miei libri cominciano tutti con i morti» diceva Amos Oz. E di fatto il suo afflato metafisico che fa sempre da contrappunto al racconto piano, quasi elementare, è il segreto dei suoi capolavori come Una storia di amore e di tenebra o Michael mio, dove sullo sfondo di una difficile storia di coppia splende una Gerusalemme miracolosa, cupa e luminosa, coi suoi cipressi neri e i suoi cieli vicini. Cominciò in kibbutz con Terra dello sciacallo, poi Il monte del cattivo consiglio, Una pace perfetta, La scatola nera, Conoscere una donna, Fima, Non dire notte… e quanti altri ne abbiamo amato. Intanto molti lo amavano per le sue idee politiche, chi scrive pensava che la sua insistenza, le firme, i documenti, gli attacchi al governo, per quanto certo motivati in modo alto, apolitico, erano tuttavia articolati in modo così poco ragionato, così social da apparire invece che un elemento di forza della sinistra, un segnale della sua evidente fragilità.
Ma Amos Oz incarnava Israele. «Quando abbandonai casa per andare a vivere in kibbutz… annotai su un foglietto alcune decisioni cruciali… dovevo cominciare riuscendo ad abbronzarmi entro due settimane, diventando d’aspetto uguale al loro; dovevo smettere una volta per tutte di sognare ad occhi aperti, cambiare il mio cognome, fare la doccia con l’acqua fredda… non scrivere più poesie, piantarla di blaterare tutto il giorno e di raccontare a tutti le mie storie e invece apparire una persona molto taciturna». Così da ragazzino Amos si figura l’identità israeliana, dura, silente, lavoratrice. E benché silenzioso non sia davvero divenuto, per il resto con questo volto da kibbutznik celestiale e duro ha saputo davvero incarnare l’ideale della «bella Israele» che di giorno lavora i campi e di notte scrive romanzi, che sogna la pace e deve fare la guerra. Nel tempo resterà di lui l’uso magnifico delle parole, la pregnanza umana della storia d’Israele come parabola d’amore e di tenebra, e la vergogna di un premio Nobel che non gli fu assegnato.
Fiamma Nirenstein, Il Giornale 29 dicembre 2018