Shoah: un quarto delle vittime in cento giorni
Nuove ricerche mettono in luce le dimensioni epocali dello sterminio della popolazione ebraica europea. L’analisi di Marcello Pezzetti per La Stampa.
Generalmente si ritiene che la Shoah sia stata una specie di onda che, come quella provocata da uno tsunami, sia partita, con dimensioni ridotte, da un preciso punto – in questo caso la Germania – e si sia via via ingigantita violentemente, devastando territori sempre più consistenti – l’intera Europa, oltre a buona parte dell’Unione Sovietica -, provocando nel corso del tempo un numero sempre più alto di vittime. Nell’Europa occidentale, ma soprattutto in Italia, dove la persecuzione delle vite iniziò solo nell’autunno del 1943, si ritiene dunque che il processo di distruzione degli ebrei abbia raggiunto il culmine nel 1944.Come prova di ciò si fa riferimento alla storia del campo di Auschwitz – Birkenau, luogo di destinazione della quasi totalità degli ebrei dell’Europa occidentale e del Sud, che raggiunse la sua più imponente capacità di messa a morte proprio tra la primavera e l’estate del 1944.
Ora, una pubblicazione del professore israeliano Lewi Stone ha il merito di mettere seriamente in dubbio la correttezza dell’approccio storico appena esposto. Mettendo a confronto, soprattutto attraverso comparazioni statistiche, le dimensioni delle più gravi tragedie della storia del XX secolo, egli arriva a sottolineare il fatto che la Shoah ha avuto il suo picco non solo due anni prima di quanto non si tenda a pensare, ovvero nel 1942, ma che addirittura nel corso di soli 100 giorni ha mostrato una dimensione omicida di gran lunga superiore a quella dello sterminio di massa considerato come il più «concentrato» della storia, il genocidio dei tutsi avvenuto in Ruanda tra l’aprile e il luglio del 1994.
In effetti da alcuni anni gli storici specialisti della politica omicida nazista, soprattutto quelli tedeschi, hanno concentrato le loro ricerche su due periodi focali per la comprensione della storia del Novecento: quello che è avvenuto nel Reich nell’autunno del 1941, ovvero la decisione dello sterminio, e quello che è successo nell’Est dell’Europa nella seconda metà del 1942, ovvero la concretizzazione più intensa di tale progetto.
L’eliminazione della popolazione ebraica europea era iniziata nell’estate del 1941 con le fucilazioni di massa compiute dalle Einsatzgruppen, truppe speciali che incominciarono ad uccidere gli ebrei nei paesi baltici, in Bielorussia e in Ucraina, ma fu nella primavera del 1942 che i nazisti misero in atto due spaventosi progetti che non avevano precedenti della storia: l’«Aktion Reinhardt» e il «piano Auschwitz». Il primo consisteva nell’uccisione della popolazione ebraica che stava ormai morendo di fame e di malattie all’interno dei ghetti nel Governatorato Generale (il cuore dell’ex territorio della Polonia); il secondo nell’eliminazione dell’ebraismo dell’Europa occidentale, dai Paesi Bassi all’isola di Rodi. Le autorità naziste arrivarono alla conclusione che per raggiungere tale obiettivo si dovesse far ricorso principalmente alla deportazione delle vittime in luoghi dove le uccisioni fossero effettuate utilizzando il gas e si dovessero lasciare in vita soltanto pochissimi lavoratori indispensabili.
Tale piano generale, che non aveva alcun precedente in nessun tipo di civiltà, si concretizzò tra la primavera e l’estate del 1942 con l’attivazione di strutture adatte allo scopo: i campi della morte. Ma se i due progetti ebbero uno sviluppo tutt’altro che uguale (nel complesso di Auschwitz-Birkenau si assistette a un costante ingrandimento delle strutture di sterminio, per cui solo agli inizi dell’estate del 1944 entrarono in funzione impianti di messa a morte «tecnologicamente avanzati», i cosiddetti Krematorium «moderni», dotati di gigantesche camere a gas e una serie di forni per la liquidazione dei cadaveri), il periodo in cui venne raggiunta la più alta capacità complessiva di messa a morte di civili nella storia furono quei 100 giorni messi in evidenza dal professor Stone.
Insieme funzionarono, infatti, le strutture di un sistema di sterminio con i Gaswagen – camion in cui si immetteva all’interno dei cassoni il gas di scarico dei motori, attraverso i tubi di scappamento – a Chełmno (Kulmhof), in una regione dell’ex Polonia occidentale annessa al Reich; i primi impianti a gas di Birkenau (Bunker 1 e 2); i tre campi dell’«Aktion Reinhardt» nel Governatorato Generale, le camere a gas «sperimentali» del campo di Majdanek, nei pressi di Lublino, oltre al fatto che continuò l’omicidio di massa delle Einsatzgruppen e di altri battaglioni di polizia con fucilazioni e uso di Gaswagen.
Per comprendere l’ampiezza dello sterminio, tuttavia, è necessario considerare soprattutto l’operazione omicida attuata all’interno del Governatorato Generale, denominata «Aktion Reinhardt» in onore del capo della Polizia di sicurezza, Reinhard Heydrich, ucciso in un attentato da resistenti cechi. Tale Aktion era effettuata in tre campi: Belzec, tra Cravovia e Leopoli, Sobibor, vicino a Lublino, e Treblinka, tra Varsavia e Białystok. Questi erano strutturati in modo simile: le vittime arrivavano direttamente su una rampa ferroviaria posta all’interno del campo stesso; venivano poi portate in un’area in cui si svestivano e consegnavano i loro averi; alle donne venivano tagliati i capelli e quindi tutti erano diretti nelle camere a gas in cui veniva immesso gas di scarico prodotto da motori installati in piccoli locali adiacenti. I loro cadaveri infine venivano gettati in enormi fosse e – come nel caso di Kulmhof – disseppelliti e bruciati durante il 1943.
Un genocidio di così ampie dimensioni e compiuto in uno spazio temporale così ristretto fu possibile perché gli esecutori agirono disponendo di un margine di manovra illimitato, non frenati da alcun tipo di vincoli burocratici, potendo fare uso indiscriminato della forza, ricorrendo in molti casi alla corruzione, in un ambiente privo di scrupoli, senza trovare alcuna resistenza, nella maggior parte dei casi con il sostegno di forze locali in un contesto vigorosamente antisemita, in cui le vittime – gli ebrei, ma, non dimentichiamolo, in parte anche i Sinti e i Rom – erano completamente indifese. Solo a Treblinka furono uccise fra agosto e ottobre più di 600.000 persone, la maggior parte in sole tre camere a gas iniziali non progettate per lo sterminio di così tanta gente, ad opera di una quarantina di tedeschi e di circa 120 ex prigionieri di guerra sovietici collaborazionisti. Auschwitz avrebbe assunto il ruolo di campo principale della Shoah solo dopo il 1943. Una storia «europea» non ancora entrata a far parte della nostra memoria collettiva.
Marcello Pezzetti, La Stampa 5 gennaio 2019